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Stefano Bardi. L’eterno giullare: omaggio a Dario Fo
09 Aprile 2017
 

Son passati secoli ormai, da quando non siamo più nel Medioevo, eppure nel Novecento italiano e più in particolare nella letteratura, c'è stato uno scrittore, regista, e attore che ha portato nel suo teatro le parole, i gesti, e i mimi giullareschi, modificandoli e riformulandoli per l'era storica in cui è vissuto; e l'autore in questione, è stato il grande Dario Fo (Sangiano, 24 marzo 1926 – Milano, 13 ottobre 2016).

Una prima caratteristica fondamentale della sua produzione letteraria e teatrale, è quella dell'immagine del fabulatore o giullare o cantastorie, che dir si voglia. Un giullare che è ripreso fedelmente dal Medioevo da Dario Fo e che, al pari di quello secolare, non si prepara su copioni scritti, bensì su battute libere e inventate al momento, proprio come vogliono i canoni della cultura orale popolare. Non essendo perciò scritta una traccia, il giullare può, a suo pieno piacimento, cambiare il volume della voce, mutare i suoi movimenti gestuale-corporali, e trasformare completamente, l'esposizione che desidera intonare. Una figura, quella del fabulatore per l'appunto, che ben si s'addice al Fo, che, oltre a essere stato lo scrittore delle sue opere, ne è stato molte volte anche il principale attore, regalandoci in questo modo una straordinaria duttilità corporale, gestuale, mimica, e fabulatoria. In molte delle sue opere vengono rappresentati i giullari, i quali non sono attori professionisti, ma solo ed unicamente delle semplici persone con la curiosa dote di intonare all'aria aperta, con o senza musica, delle meravigliose e stravaganti vicende amorose, cavalleresche, sacre, e profane. In poche parole, il giullare è visto dal Fo come colui che rievoca e reincarna le eretiche voci del passato, attraverso una forte funzione critica nell'era novecentesca; e che riesce a fondere il passato col presente, creando a sua volta un inedito effetto, usando la bizzarria e la ragione, che introducono una scheggia del presente nel passato, la quale si riversa poi all'interno degli attuali accadimenti politici.

Una seconda caratteristica delle sue opere teatrali è il legame che Fo ha con l'oralità, che, a suo avviso, invita alla compartecipazione attiva del pubblico, alle sue commedie teatrali. Inoltre questa tecnica, definita anche come una “battuta senza copione”, gli permette di creare una comunication face to face, composta da incessanti e infiniti scambi sequenziali. Una narrazione, quella orale, che è l'idea del fabulatore espressa seguendo un lento e lumacoso ritmo vocale-espressionistico, poiché l'oratore, fuori dalla sua mente, non ha niente con cui riallacciarsi al punto di partenza. In parole povere, il fabulatore non ha un copione e una trama, sulle quali basarsi. Accanto all'oralità nel teatro di Dario Fo, possiamo assistere a una rivoluzionaria concezione delle realtà, che attraverso lui esplica il concetto della parola, intesa quest'ultima come un qualcosa che non possiede regole e che avviene all'improvviso. Una parola, che però si basa sempre sull'oralità, a sua volta costruita e codificata da Fo attraverso il grammelot, ovvero, un miscuglio linguistico composto da onomatopee e dal vernacolo padovano.

Quindi, il nostro caro autore, costruisce le sue opere e i suoi capolavori teatrali attraverso la giullarità e l'oralità. Opere, anzi commedie partitiche le sue, che vogliono fomentare e aizzare l'opinione pubblica ciberneticamente rivoluzionaria. Commedie totalmente dissacranti e smitizzate, in cui i protagonisti e le loro storie, sono teatralizzate secondo un'inedita chiave di lettura, che molte volte risulta essere immaginaria, ma comunque sempre priva di una stilistica novecentesca. Più nel dettaglio le sue commedie teatralizzano i crucci della famiglia medio-borghese e degli sposi, per poi toccare le ansie dello sfruttamento socio-lavorativo, dell'infezione politica, della lontananza ecclesiastica dai lavoratori, dell'afflizione adolescenziale, dei malati di AIDS, ecc. Queste opere furono create da Fo attraverso un linguaggio che aveva le sue principali fonti nei fatti di cronaca quotidiana dell'Italia del secondo Novecento. Con il passare degli anni, le sue commedie maturano tematicamente, iniziando a rappresentare la mala-politica, le leggere distrazioni ideologico-politiche, e il qualunquismo borghese. Commedie animate da barboni, ladri fortunati, appassionati e focosi scambisti, persone spiritualmente schiave dell'infetto potere burocratico, e tanti altri ancora.

L’opera che più di tutti rappresenta la poetica del Fo, è il capolavoro dei capolavori, ovvero, la giullarata popolare Mistero buffo. Giullarata popolare in lingua padana del '400 composta da monologhi, che trattano temi biblici ed evangelici ispirati a loro volta, dalla lettura dei Vangeli Apocrifi e da alcune vicende tratte dalle cronache, sulla vita di Gesù. Fonti che realizzano una giullarata, che ha come principale obiettivo il riconoscimento della cultura popolare, intesa da Dario Fo come la vera base del teatro, la quale però secondo il nostro autore è stata sempre adombrata dalla cultura ufficiale, ovvero, dalla cultura ecclesiale ed istituzionale. In particolar modo è sulla sfera ecclesiastica che si concentra quest’opera, cercando di eliminare la falsa bruma, che copriva e copre ancora la fede, attraverso lo sputtanamento dei falsi rituali nel Sud Italia. In parole più semplici, questa giullarata vuole sputtanare le false fedi religiose, che dal Medioevo sono usate ancora oggi. Un’opera in cui, dall’inizio alla fine, sono presenti mutazioni vocabolaristico-fonetiche, rapporti etico-esistenziali fra l’alto e il basso, e doppie nature linguistiche veneto-lombarde. Opera che porta sul palcoscenico una miriade di classi sociali e di soggetti, ma più nel dettaglio le figure più importanti sono lo sciocco e l’ebbro, la cui “naturale” stupidità simboleggia la purezza, ovvero, secondo il Fo, l’unica via che ci permette di almanaccare e chimereggiare. Giullarata che, però, non vuole solo ed unicamente smascherare i falsi miti della fede, ma che vuole anche costruire un Nuovo Teatro, che sia in grado di donare agli spettatori nuovi spazi, nuove temporalità, e nuovi codici comunicativi che rappresentino una realtà non assoluta. Una lunga giullarata, la sua, in cui nelle tre ore abbondanti di spettacolo si susseguono testi medievali ricreati dal Fo, che vuole far partecipare gli spettatori, nella feroce canzonatura degli antenati dei padroni odierni. Parole che, tradotte in termini più semplici, vogliono rappresentare la lotta fra gli oscuri poteri burocratico-amministrativi e gli umili, nei quali è insita la libertà culturale, la guerriglia sociale, e la libertà. Un'opera, come si è detto all'inizio, che vuole portare al riconoscimento della cultura popolare, ma allo stesso tempo però, possiamo leggere il capolavoro foniano come un'opera filosofica dalle atmosfere marxiane e gramsciane, attraverso l'analisi sul “da dove nasciamo” per comprendere il “dove camminare”, ovvero ancora, per comprendere l'eterna lotta di queste classi sociali, in chiave fissa e in movimento. Giullarata che si pone due principali obiettivi, ovvero, la partecipazione attiva degli spettatori e la consegna a essi in modo chiaro, del discorso. Per far ciò Fo improvvisa vocalmente ogni discorso, accompagnandoli con gesti, recitazioni e prologhi introduttivi che ne illustrano le origini. In definitiva Mistero buffo. Giullarata popolare in lingua padana del '400 può ben definirsi come una giullarata epica, poiché si basa sulla logica e scoperta magia dell'attore-negromante.

 

Dopo aver lungamente parlato della poetica del Fo, tuffiamoci ora in questa seconda e ultima parte nel mondo foniano, attraverso l'analisi di alcuni suoi grandi capolavori. Iniziamo dal 1953, anno in cui fu pubblicata la commedia Il dito nell'occhio. Commedia colma di derisioni ironico-politiche che, attraverso fulminee, canzonatorie e pungenti rappresentazioni, teatralizzano l'intero cammino dell'Uomo. Commedia essenziale, si può definire, poiché è composta da scenografie e costumi basilari, come per esempio i vestiti dei personaggi composti, unicamente, da lunghe tute nere. Essenzialità basata però su corti e rapidi sketch, che a loro volta sono realizzati con una lingua ispirata ai fatti di cronaca e alla pura improvvisazione teatrale.

Il 1959 è l'anno della commedia Gli arcangeli non giocano a flipper, la quale contiene ancora l'esperienza foniana del teatro di rivista, le scritture delle vecchie espressioni della Commedia dell'Arte, le scene del Teatro di Piazza, ed i gesti meccanici presi dai film chapliniani. Più nel dettaglio questa commedia, si compone di sketch che non si focalizzano su uno specifico scopo, ma sono delle dolorose investigazioni sul legame fra il cittadino onesto e il farraginoso meccanismo della burocrazia.

Il 1965 è l'anno della commedia La colpa è sempre del diavolo. In questa opera Fo cerca di oltrepassare il limite fra il passato e la contemporaneità, il quale limite è rappresentato nella Milano trecentesca, dalla sfida fra il potere sacrale e il potere nobile. Più nel dettaglio e per essere più precisi, la sfida in questione è quella fra gli stupidi e “nobili” cattolici contro gli eretici profanatori. Già in questa commedia, viene svelata la doppia letterarietà di Dario Fo, che è composta dal burlevole bighellonare e dal suo profondo ed oceanico senso teatro-esistenziale.

Il 1968 è l'anno della commedia Grande pantomima con bandiere e pupazzi piccolo, grandi e medi. Una commedia di parte è, come dimostrano le sue rappresentazioni all'interno dei circoli ARCI organizzate dal Partito Comunista, che passano dalla canzonatura popolare alla canzonatura ideologica, scagliandosi ferocemente contro la borghesia e i mass media (radio, televisione, giornali). Seppur di parte, questa commedia risulta anche essere un bighellonamento scenico e una denuncia, ideologica e politica allo stesso tempo. Denuncia che è svolta dal personaggio principale, ovvero, un gigantesco pupazzo raffigurazione dello Stato, dal cui ventre vengono partorite le oscure ombre del Potere. Seppur in questa commedia del '68 assistiamo ancora alle giullarate, Fo la pensò come un nuovo tipo di teatro, che si fa coccolare da inedite spazio-temporalità e da nuovi registri, che sono composti dalla coscienza critica e dall'investigazione ideologica. Inoltre questa commedia è intesa come un inedito mezzo comunicativo, che, insieme alla massa popolare, combatte contro il capitalismo sociale, contro la mutazione culturale e contro la uniformazione ed omologazione sentimentale.

Il 1969 è l'anno della commedia L'operaio conosce trecento parole, il padrone mille, per questo lui è il padrone. Commedia in cui l'erudizione viene concepita come uno strumento di formazione ed educazione critico-ideologica sull'Uomo. In questa commedia il palcoscenico non è più luogo teatrale, bensì giudiziario, attraverso la sua mutazione in tribunale, in cui si svolgono vere e proprie cause ideologiche. Attraverso questa commedia, Fo voleva raggiungere la partecipazione attiva del pubblico e farlo meditare sulle tenebrosità ideologiche, sociali, intime ed economiche dell'Italia novecentesca. Inoltre, viene proposta una drammaturgia che parla direttamente ai colpevoli, senza peli sulla lingua. In poche parole e per concludere, questa commedia foniana è una feroce denuncia contro il capitale, la fabbrica, il partito, e contro le pessime, vergognose, e inumane condizioni di vita del popolo.

Il 1970 è l’anno della commedia Morte accidentale di un anarchico, che si basa solo idealmente però sulla “dipartita casuale” dell’anarchico Giuseppe Pinelli, avvenuta per una caduta dalla finestra, durante il suo interrogatorio nel Commissariato di Polizia del 15 dicembre 1969. Con questa commedia, inizia la serie di opere teatrali che non puntano a metaforizzare o rimandare a problemi ideologici, ma vogliono trattare i problemi che da essi stessi scaturiscono. Come detto poc’anzi questa commedia è dedicata alla morte del Pinelli, ma non si ispira alla sua vicenda, della quale è teatralizzata la sua controfigura Salsedo, che è addirittura psichicamente folle, all’interno di una New York degli anni ’20. Un’opera in cui l’ira si trasforma in guerriglia, che, a sua volta, si trasforma in stizza. Una storia, quella del pazzo americano, che parte dagli avvenimenti del 1921 fino ad arrivare nella Milano di fine anni ’60. Il Salsedo–Pinelli attraverso le vere testimonianze fatte da confessioni giudiziarie, le investigazioni, e tutte le ombre burocratico-amministrative, ci ha mostrato il grande mistero giudiziario italiano, di tutti i tempi. Commedia che è una denuncia della falsa e irreale democrazia, fatta attraverso l’uso di verbali legislativi e polizieschi, che sono usati da Fo come degli strumenti sarcastici, che hanno lo scopo di immerdare i Processi Giudiziari. Opera che però, ha anche scopi educativi e pedagogici, che vengono affermati e rappresentati attraverso l’uso della risata intesa come medicina sociale.

Il 1972 è l’anno della commedia Pum! Pum! Chi è? La polizia!, che si ispira alla carneficina di Piazza Fontana, all’accusa di Pietro Valpreda, al “suicidio” di Giuseppe Pinelli, al tentato colpo di Stato operato da Junio Valerio borghese, ecc. Una commedia che non vuole comprendere niente, poiché solo con l’incomprensibile si poteva uscire dal labirinto creato dai Servizi Segreti sulle misteriose morti italiane degli anni ’70. Non comprensione che sarà raggiunta grazie all’uso da parte di Fo del grammelot, ovvero di un linguaggio composto da parole tronche e gesti mimico-facciali.

Il 1974 è l’anno della commedia Non si paga, non si paga in cui sono rappresentate le arcane, volgari e istantanee ansie degli spettatori, attraverso un canovaccio scritto frettolosamente e sempre aperto alle modifiche consigliate dal pubblico, nel dibattito e confronto post spettacolo. Esempio di “teatro povero” dedicato alla Sinistra non canonica, ovvero a quella generazione politica che non fu in grado di fabbricarsi simulati moventi, pur di non staccarsi dai loro privilegi ideologici. Scopo principale della commedia è quello di riscoprire le radici dell’evoluzione che ha tolto al popolo la sua erudizione e quello di istigare gli umili spettatori a ricercare, riappropriarsi e riutilizzare la loro cultura.

Il 1975 è l’anno della commedia Il Fanfani rapito che è una divertentissima burla teatrale, in cui il Fanfani non è sequestrato dalle Brigate Rosse, bensì dall’amico e avversario Giulio Andreotti, che, con questa mossa, spera di avere più successo politico e consensi elettorali. Opera dalle atmosfere aristofanesche, in cui i protagonisti illustri teatralizzati da Fo subiscono dei meccanismi comici e giullareschi. Ironia che non fu accettata dai partiti politici di allora, poiché attraverso questa ironia Fo sputtanò le loro ambiguità, le loro inutili dialettiche, le loro codardie, e le loro diaboliche strategie.

Il 1976 è l’anno della commedia La marijuana della mamma è sempre la più bella. Commedia sulla droga, attraverso la rappresentazione di una famiglia composta dal nonno, dalla madre col figli tossicodipendente, da alcuni amici di famiglia e da un prete. Non solo il figlio, ma tutta questa famiglia è un nucleo di drogati, i quali producono la droga dentro casa, per poi venderla ai coinquilini. Droga come strumento di riflessione sulle taciute dipartite causate dal tabacco, dall’alcool, dagli psicofarmaci, e dalle “pasticche”; e droga come lente di ingrandimento sull’illegale universo commerciale legato ad essa, sulla delinquenza e sulla mafia.

Il 1982 è l’anno della commedia Il fabulazzo osceno in cui Dario Fo ritorna alla cantastorialità di stravaganti fole e alla rilettura di testi classici in chiave popolare. Un nuovo e revisionato Mistero buffo quest’opera è, in cui si vogliono esporre e declamare le avventure, i patimenti e le canzonature di un osceno amore. Un osceno, però, che non risulta essere triviale e rozzo, ma al contrario altamente nobile grazie all’utilizzo di testi poetici e del grammelot.

Il 1986 è l’anno della commedia Harlequin, Harlekin, Arlekin, ovvero un laboratorio per Arlecchino nata come seminario, per poi trasformarsi in una vera e propria commedia teatrale. Un Arlecchino delle origini, quello di Fo, ovvero quello francese del 1585 in cui il personaggio risulta essere “satanico” e un abitante dei boschi.

Il 1990 è l’anno della commedia Zitti! Stiamo precipitando! in cui ritorna il tema della droga affiancato con quello dell’Aids, che durante tutti gli anni Novanta furono le nuove Piaghe d’Egitto. Commedia che teatralizza questo nuovo dramma sociale, attraverso sceneggiate, ardenti emozioni, mobili e divani indemoniati, e tanto altro ancora.

Il 1998 è l’anno della commedia Liberate Marino! Marino è innocente. Opera che muta il teatro in un luogo da tribuna, in cui ci si scambiano meditazioni e rimorsi. Una commedia civile questa è, ovvero una commedia in cui si vuole investigare la realtà, per poi discuterla ed esporla fortemente, sul palcoscenico. Questa commedia si ispirò all’irreale processo che porterà al castigo giudiziario nei confronti di Adriano Sofri. Commedia che Fo costruisce come un station-drama o opera a tappe in italiano, che sarà basata sugli atti giudiziari sul processo e la condanna carceraria di Sofri, di Ovidio Bompressi e di Giorgio Pietrostefani. Atti giudiziari che Fo trasformerà in paradossi, burlonerie, e in orazioni avvocatizie. Sceneggiature rivoluzionarie grazie al dislocamento, al centro del palcoscenico su di un pulpito, di un libro aperto, quasi che stesse a simboleggiare una Grande Storia Universale o una nuova Bibbia, affidando una misteriosa e mistica interpretazione, ad uso e consumo degli spettatori.

Il 1999 è l’anno della fola Lu Santo Jullare Francesco che si basa sulle ricostruzioni storiche edite e sulle fabule orali della tradizione mezzadra umbra. Il santo assissiate può ben definirsi il primo rivoluzionario e giullare, poiché scelse di vivere, mangiare, lodare e bighellonare con i poveri, i lebbrosi e gli appestati. Nell’opera di Fo e in tutta la storia della letteratura italiana, il santo assissiate simboleggia il primo scrittore, che delle sue carni fece parole, attraverso le espressioni corporali e l’utilizzo del melodramma.

 

Stefano Bardi


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