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Franco Patruno. Il corpo risorto, presenza reale e quotidiana 
(Speciale Pasqua Giubileo 2000)
08 Aprile 2017
 

È un succedersi ellittico di bagliori. Di tocco in tocco, si direbbe, se la forma, unitaria quanto mai, non creasse un centro di convergenza, il corpo luminoso di Cristo Risorto. La luce non solo evidenzia il percorso delle epidermidi che si ricorrono, ma crea l’effetto di essere essa stessa la concretizzazione della materia. La storia della luce precede o, per meglio dire, è il soggetto rappresentato. In che senso? Se nella “Leggenda aurea” si dice che la nostra attenzione deve essere focalizzata sul “come Cristo è risorto” (e sente il bisogno di aggiungere che “in questo modo vediamo soprattutto la sua potenza, poiché egli è risorto in virtù della sua forza”), la luce sembra meglio affermare, con Giovanni, che l’elevazione attira tutto a sé. È il nuovo serpente di bronzo, fissando il quale, gli israeliti sarebbero stati sanati dai morsi dei rettili nel deserto. Gesù dice a Nicodemo: “E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chi crede in lui abbia la vita eterna” (Gv. 3,14).

Il vessillo della vittoria si libra, quasi architettura di pietra bianca che avvolge interni spazi, e attira il nostro sguardo perché poi riposi sullo splendido corpo del Risorto. Il manto rosso dietro il Cristo equilibra specularmente il vessillo, giocando sulla polarità concavo-convesso che maggiormente ne evidenzia l’innalzamento. Un rapporto di splendori, si direbbe, senza naturalistica atmosfera. I corpi sono padroni assoluti di tutto il campo visivo, come in certi interni vibranti di inaccessibile continuità del Tintoretto. È uno sconvolgimento di danza quello intuito da El Greco, come in un proscenio a prospettiva ribaltata che valuta tutta l’antropologia dei sensi del pieno umanesimo con la metafisica presentatività dell’iconismo greco bizantino. Scosso dall’evento fondamentale della fede cristiana, il pittore dà forma ad una epifania di luce materica che libera le tenebre. Non c’è corpo che non aspiri ad un paradossale intreccio psicologico che, ben oltre una lettura iconografica che tenderebbe a separare i reprobi da coloro che sono esaltati, tutto involve nel “timore e tremore” di biblica reminiscenza. Ma se nel terribilmente fascinoso faccia a faccia di Mosè con il roveto ardente prevale l’accecamento come da furore di fiamme e fuoco, qui il Risorto si presenta solenne nel suo cammino verso noi, quasi riaffermasse quel “non abbiate timore, sono proprio io” che già aveva placato i cuori durante una tempesta o invitato la chiara e distinta razionalità di Tommaso a toccar con mano le piaghe della passione. Nel cielo ricreato dall’ostensione della luce pasquale, tutto è naturale e tutto trascendente. L’incarnazione del Figlio, superata l’ora delle tenebre, vince la morte e ci incorpora nell’unico vessillo di salvezza del suo corpo, quello fatto carne nel seno della Vergine Madre ed ora presente come ad Emmaus, con una classica bellezza internamente commossa da quelle deformazioni che ristabiliscono nuovi canoni e nuovi equilibri. Se apollineo è parte dello splendore, legato all’agitarsi manieristico dei grandi veneti è invece il guizzare di segmenti plastici che evidenziano e mettono in ombra, valutano epidermidi stupite e sguardi imploranti, acclamano e quasi offrono l’inquietudine sopita e finalmente paga di tanta visione.

Del 1621 L’incredulità di San Tommaso di Giovanni Francesco Barbieri detto “il Guercino”. Se David M. Stone afferma che l’artificio non è nel carattere del pittore centese, giustamente si sofferma a valutare le differenze o l’insormontabile divario tra due concezioni della pittura che sono, a mio avviso, anche due diverse prospettive del sentire teologico: quelle di Guido Reni e del Guercino. È il platonismo cristiano e la costante del realismo che si confrontano, spesso si includono intrecciandosi, per poi lasciarsi in un divorzio tanto inevitabile quanto lo è la dialettica tra la smaterializzazione idealizzante e il sentire caravaggesco della luce che pone in scena tutta la corposità della vita quotidiana. Si intenda: la smaterializzazione del Reni non nega la forma, ma ne canta l’estrema e dolente invocazione. In altri termini: la costante idealizzante del Reni non è gnostica, cioè non nega la carne umana quasi a superare radicalmente l’epidermide per raggiungere in virtuale iperuranio delle anime. Espone i corpi come, ripeto, invocazione sofferta, pagata al caro prezzo di una croce lacerante e notturna. In questo la “teologia” del Reni anticipa i romantici e sembra dar sembianze non vane ai canti liturgici di Novalis. Guercino copre il campo visivo con massicce figure, “maestose ed ingombranti” come afferma Stone con l’affetto di chi ben conosce l’eccitazione del pittore nel render leggero ogni assemblaggio di forme. Così, nel dito teso di Tommaso che, già convinto, pure tocca il costato del Redentore, il corpo risorto ci appare in sfolgorante naturale bellezza. Se quella mano non arrivasse alla piaga del Cristo mancherebbe un’indicazione e, come un fervido annuncio di salvezza, un’affermazione dell’umana presenza storica del corpo trasfigurato. Nel quadro, ora alla National Gallery di Londra, la luce è unica e attraversa dall’alto verso il centro l’assiepamento degli apostoli, focalizzandosi sul volto e sul petto del Risorto. È una fonte luminosa ben specifica, molto teatrale, quasi da ribalta in primo piano. Al realismo del collo teso, nervosamente reso pulsionale dalle arterie dilatate di Tommaso, si contrappone la serena offerta dell’ostensione del Maestro. L’unico elemento simbolico ed allegorico è il vessillo stretto nella mano sinistra. Il drappo, appena evidente in alto, alleggerisce lo sfondo scuro con un bianco materico e diafano, “scoprendo” in tal modo la sanguigna presenza dell’intreccio straordinariamente “umano” della sacra e santa rappresentazione. Due discepoli fanno da comparse non riconoscibili dietro l’inquietudine dell’apostolo del dubbio, distribuendo piani senza interspazi “respirabili”. È tipico del grande centese questo accorrere di masse, secondo una sensibilità conquistata al realismo che ama congregare forme per liberarle al centro. Pietro, già personalmente ferito non solo dal dubbio ma dal tradimento, è alla sinistra del quadro in muta contemplazione dell’evento; alla zona di intensi contrasti chiaroscurali dominati dalla figura di Tommaso, si contrappone uno stupore come di castità riconquistata: quella della fede. La tenerezza dello sguardo del Redentore è l’ambiente psicologico che concentra la nostra attenzione e sembra alludere ai detti evangelici sull’incapacità di comprendere la tragicità della croce, a quella “durezza di cervice” che può essere vinta solo dalla presenza non visibile dello Spirito. Se di teologia dall’opera si vuole parlare, il dipinto con l’incredulità di Tommaso riafferma un dato caro alla coscienza cristiana che ben interpreta in senso non falsamente devozionale il dettato del Concilio di Trento: l’oggettività del corpo risorto è una presenza reale intesa come quotidianamente inserita nella vita. Ma questa sarebbe un’affermazione ancora pittoricamente generica: la luce caravaggesca rileva i tratti della drammaticità dell’atto di fede. Una drammaticità che, esposta alla e nella serialità dell’umano pellegrinaggio, rivela la sua nascosta gloria.

 

Franco Patruno

(L'Osservatore romano, 23/04/2000)


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