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Genova. La Piazzetta dell’Olivella
05 Aprile 2017
 

Piazza S. Bartolomeo dell’Olivella è un angolo remoto e laterale del centro storico di Genova, incastonato nel quartiere del Carmine che si inerpica su per la china compresa tra le mura medievali del Barbarossa e quelle cinquecentesche, nella parte che sboccava con la porta di Carbonara.

Nessuno conosce la piazza, tranne gli abitanti del quartiere e tranne i pochi che per qualche ragione hanno sentito parlare di questo piccolo gioiello di riviera, quanto resta di un antico monastero eretto nel 1305 e abitato dalla monache cistercensi fino a quando i furori napoleonici fecero man bassa di simili presenze, molto diffuse in questa parte di città. Nel frattempo, per quasi cinque secoli, la vita scorse placida e silenziosa, senza eventi rilevanti per le cronache del quotidiano se si esclude la trasformazione della chiesa gotica in edificio barocco intorno alla metà del ‘600, con gli annessi affreschi del Carlone che ancora oggi celebrano la gloria di S. Agostino.

Piazza S. Bartolomeo dell’Olivella, o più semplicemente piazza dell’Olivella, o ancora piazza Rossa, come fu ribattezzata con tanto di scritta muraria coronata da falci, martelli e improperi alla volta di preti e borghesi nei turbolenti anni ’60, dove in questi vicoli di periferia si catalizzò un misto di intellettualismo barricadero e autogestione popolare: il tempo continua a scorrere, se non più placido, sempre silenzioso. Qui non arriva un decibel del frastuono di città, del traffico, delle gru del porto, nemmeno il vento riesce ad infilarsi e i due ulivi della piazza controllano che tutto in qualche modo si mantenga, nonostante questo sia un luogo di partenze.

Da qui non partirono soltanto le monache, negli anni se ne sono andati anche gli artigiani che tenevano le loro botteghe sulla salita di Carbonara e i vicoli a contorno, i vicoli dalla toponomastica gentile dell’olivella, dello zucchero, del cioccolatte, della fragola, della giuggiola. Se ne sono andati gli intellettuali barricaderi (o non più barricaderi), osti, farinotti, attori, musicisti, comici, ballerini di tango, poeti, marinai, architetti, equilibristi, famiglie sposate, famiglie curiose, famiglie numerose. Se n’è andato Don Gallo, che intendeva a modo suo il mestiere di curato e che da qui salpò per metter su la comunità di San Benedetto, salvo tornare puntualmente il 16 luglio alla festa del Carmine e, più di recente, il 2 luglio alla festa che ricorda la sollevazione popolare che fece seguito all’allontanamento. Se n’è andato il gestore del cinema, che dentro l’oratorio cistercense girava le sue pellicole di western e commedia all’italiana, così come se n’è andata l squadra del comune che ha murato il rimpianto vespasiano della piazza. Se n’è andato pure Giuliocalzina, il gatto della Lella che passava le giornate sulla panchina sotto gli ulivi e che forse si è imbarcato per il Marocco o il Sudamerica, in senso inverso agli umani della scorsa andata.

Questo è un luogo di partenze silenziose perché le partenze fanno male al cuore, che si lasci per avventura o per disperazione. Ma ancor più silenziosi (perché incerti, perché stranieri) sono gli arrivi, che pure si susseguono e che trovano tra quei vecchi muri il senso proprio del loro andare: anime sole, anime accoppiate, magari assortite, intrecciate, riprodotte, anime incredule, anime vaganti che cercano un luogo proprio dove riconoscersi.

Piazza S. Bartolomeo dell’Olivella o piazza dell’Olivella o Piazza Rossa o come dire si voglia è anche una piazza magica.

Da anni, per sogno o per incanto, senza cartelli o grida di ogni sorta, senza qualcuno che ordini o disponga, quando il tempo lo consente la piazza s’affolla d’una umanità imprevista di cui nessuno saprebbe ricostruire nel dettaglio i motivi o i richiami che li hanno fatti uscire dalla propria casa, spento il televisore e spenta l’apatia che il televisore espande, giacché a niente serve il cannocchiale se non si riesce più a vedere l’ombelico.

Non conta nulla l’età, l’appartenenza, la desinenza, il pensiero che si ha in testa o il conto che si ha in banca, non contano i colori delle idee e le profondità dei dubbi, non conta neppure che si sappia cucinare o che si abbia avuto il tempo materiale per cucinare ovvero per portare qualcosa di precotto da mangiare.

Fioriscono in un amen panche e tavolacci, sventagliano tovaglie, si sturano bottiglie, atterrano vassoi, teglie e ceste in cui quel poco o quel tanto è a disposizione di tutti, compresi quelli che passano tornando dal lavoro e che si fermano un momento, almeno a ringraziare, o lasciare sul piatto una parola. Perché non è il salame, la polenta o il minestrone che fa la gente sazia e nemmeno la focaccia o l’ormeasco, ma quel sentirsi parte necessaria e accolta, foss’anche per un’ora, il tempo di tornare ognuno a casa sua con l’odore addosso di una vita condivisa.

Di solito il miracolo accade di mercoledì, una giornata messa di traverso a far da ponte su tutto ciò che ci scorre addosso, dove di solito non si parte e chi è già partito vede prossimo il tempo del ritorno.

 

 

(Trascrizione del testo dalla targa affissa in piazzetta, cfr. ultima foto in allegato)


Foto allegate

 
 
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