Un grande autore francese, Jean Renoir, esortava i critici a scrivere soltanto dei film che a loro erano piaciuti, per condividere – diceva – con i lettori il piacere che avevano provato vedendo quei film.
Capita però che anche film che nel complesso possono sembrarci poco riusciti, ci diano, per riprendere le categorie di Renoir, dei momenti di piacere. E viene allora da chiedersi perché quel piacere non si estenda a tutta la durata del film; perché prevalgano invece il distacco emotivo, il senso di incredulità, lo scetticismo.
Prendiamo, ad esempio, l'ultimo film di Giovanni Veronesi, Non è un pianeta per giovani.
La premessa del racconto descrive la vita di due giovani camerieri in un ristorante romano, entrambi credibili, per l'aspetto fisico, per il comportamento, per i problemi che li affliggono. Sembrano usciti da quel tipo di commedia italiana capace di riflettere la vita quotidiana senza facili accentuazioni caricaturali; restituendola così come, nel bene e nel male, la vita davvero è.
Il loro problema è: la frustrazione. Il loro lavoro sembra privo di sbocchi; così come il paese, l'Italia, non offre ai loro occhi prospettive plausibili di miglioramento economico.
E così, come altri loro coetanei, decidono di trasferirsi all'estero e scelgono, “originalmente”, come destinazione Cuba: perché hanno appreso, da conoscenze sul luogo, che il governo cubano sta concedendo qualche licenza ai locali pubblici per la connessione wi-fi, e vorrebbero aprire un ristorante sulla spiaggia dotato di questo servizio, ancora raro in quel paese.
Come si vede, l'impostazione del racconto sembra considerare, nei personaggi, l'“uomo economico”, quello appunto alle prese con i problemi del lavoro e della sussistenza.
E in questa impostazione rientrano a pieno due riuscite caratterizzazioni: il padre di uno dei camerieri (interpretato da Sergio Rubini) che ha un'edicola di giornali, ma che, non riuscendo più a venderli, “spaccia” nel suo chiosco frutta e verdura; e un ristoratore siciliano, gioviale, ma che ha l'aria un po' losca del faccendiere (lo interpreta Nino Frassica), che ha aperto un locale a Cuba per sottrarsi in patria, a suo dire, al pagamento del pizzo alla criminalità organizzata.
Ma una volta che i due ragazzi sono giunti a Cuba, il film cambia bruscamente registro, si trasforma in un dramma esistenziale di naturale prevalentemente psicologica.
Cuba, agli occhi di Veronesi e degli autori del film, sembra incarnare il lato oscuro dei personaggi; è il luogo in cui i loro intimi conflitti, fino ad allora repressi, esplodono.
Uno dei camerieri, affascinato dai combattimenti clandestini corpo a corpo, scopre il piacere, la voluttà di picchiare; e si lascia invischiare da quello sport fino ad abbrutirsi.
L'altro affronta un nodo della sua storia familiare: l'uomo che lo ha cresciuto come un padre, non è il suo padre vero. La maturazione della sua autocoscienza gli consentirà di realizzare le sue potenzialità di scrittore.
Ora, sarà che la trasformazione del cameriere, simpatico anche se un po' schivo, è troppo repentina. Sarà che viene da chiedersi perché gli autori abbiano voluto fargli scoprire questa vocazione proprio a Cuba, visto che anche in Italia le occasioni per picchiare, volendo, non mancano, come dimostrano certe cronache tragiche di questi giorni. Sarà che l'altro protagonista era credibile come giovane di belle speranze, ingenuo, sereno, equilibrato; ma molto meno credibile come intellettuale e scrittore.
Fatto sta che nello spettatore si fa strada via via quell'incredulità e quello scetticismo che impediscono di partecipare al racconto. Ed è un peccato, perché le premesse facevano sperare in un esito più convincente.
Giovanni Anzaldo e Filippo Scicchitano, nei ruoli dei due protagonisti, sono bravi; ma la loro bravura non può rimediare a certe incongruenze drammaturgiche dei loro personaggi.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 1° aprile 2017
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