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Pietro Donzelli. Terra senz’ombra 
Il Delta del Po negli anni Cinquanta
28 Marzo 2017
 

Parlando di “neorealismo” appare, a tutt’oggi, ancora incerta la ricerca storica su quel periodo in ambito fotografico, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza effettiva delle fonti e delle testimonianze. Alcuni studi e ricerche italiani hanno messo in evidenza con adeguata attenzione critica, come di fatto l’aver applicato la categoria “neorealismo” alla fotografia, desunta dal cinema e dalla letteratura, faccia parte di una “narrazione” sul periodo, costruita a posteriori, che ha poi dato spesso adito a luoghi comuni e soprattutto all’incapacità di comprenderne la ricchezza e molteplicità delle esperienze. Italo Calvino nella sua Presentazione a Il sentiero dei nidi di ragno (Torino, Enaudi, 1964) notava il carattere composito del “movimento” neorealista, che sosteneva non potersi configurare come una scuola bensì come un “insieme di voci”, un’esperienza stratificata.

Il fotografo bolognese Alfredo Camisa (1927-2007), in una bella intervista, ironicamente dichiarava: «Alla fine degli anni Cinquanta alcuni di noi […] chiudevano la loro esperienza fotografica […] con un’etichetta: eravamo stati, senza saperlo, i fotografi “realisti”, anzi “neorealisti”».

Meglio allora parlare di orientamenti o di un “gusto”, ma certo non di un movimento organizzato o definito da qualche adesione a un manifesto, a delle dichiarazioni programmatiche di una poetica ben precisa.

Si arriva poi a un’altra “questione” fondamentale per la fotografia, collegata alla “questione” del realismo: cosa sia in effetti il “documento” in fotografia. Nella “declinazione” neorealista, come è stata sviscerata dai più che se ne sono occupati e se è possibile trovare un minimo comune denominatore in esperienze molto diverse le une dalle altre, la fotografia si pone il compito, attraverso l’attenzione al “reale”, di “documentare” le condizioni delle persone che vivono in povertà, per descriverle e per suscitare la necessità del cambiamento. Quindi un tema della realtà delle cosiddette classi disagiate, e un impegno, una convinzione: descrivere per persuadere, alla trasformazione sociale e politica. A questo fine la fotografia deve essere “documento”, nell’adesione al reale e al “vero”. Questione che è stata affrontata, naturalmente, sin dalle origini della fotografia e che in Italia fu affrontata spesso all’interno di una dicotomia, quella tra “documento” e “opera d’arte”, che segnano il dibattito sulla fotografia sin dall’ottocento e su cui molti sono intervenuti, al fine di non considerare la fotografia con gli stessi criteri e categorie di pensiero applicate all’ “opera d’arte”.

L’esperienza neorealista tra letteratura e cinema vive soprattutto in Italia tra la metà degli anni quaranta e metà degli anni cinquanta. Il “neorealismo” in fotografia vive e procede anche oltre, tuttavia, fin verso gli inizi degli anni sessanta. Riconducibile, quindi, a un “orientamento” verso la vita quotidiana della gente comune, dovuto, senz’altro al clima culturale del dopoguerra, trova i suoi antecedenti sicuramente nella cultura fotografica italiana tra la fine degli anni trenta e gli inizi degli anni quaranta. Non sempre, oltretutto, il carattere cosiddetto “progressivo” dell’esperienza “neorealista” è veramente tale, e il rinnovamento intellettuale ed espressivo passa spesso per altre vie: le ricerche astratte e informali, le tensioni sperimentali che s’incrociano con la grafica, la pubblicità, il cinema, l’architettura e non, necessariamente, ad esempio, col realismo pittorico pur vivo nello stesso periodo.

Alberto Lattuada pubblica nel 1941 Occhio quadrato. 26 tavole fotografiche, grazie alle Edizioni Corrente, a un anno dalla chiusura della rivista omonima, cui aveva collaborato insieme a Comencini.

Dice Lattuada nella prefazione al suo libro: «Nel fotografare ho cercato di tenere sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove sono rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni». È sicuramente anche in questi riferimenti che va cercata l’origine di una fotografia incline al “realismo” come attenzione alla condizione umana, in definitiva, come “umanesimo”.

Pietro Donzelli. Terra senz’ombra. Il Delta del Po negli anni Cinquanta” è il titolo della mostra che, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo è presentata nella sede di Palazzo Roverella di Rovigo fino al 2 luglio, a cura di Roberta Valtorta (catalogo SilvanaEditoriale).

 

Pietro Donzelli (Monte Carlo, 1915 – Milano, 1998) ha testimoniato l’Italia del dopoguerra agli inizi anni sessanta, il passaggio dalla società rurale e preindustriale alla società dei consumi. Fotografo, ricercatore, collaboratore di riviste specializzate e curatore di mostre, Donzelli è stato una figura determinante per la diffusione della cultura fotografica nel nostro Paese. È grazie alla sua instancabile attività che sono state presentate in Italia, per la prima volta, opere di Dorothea Lange, di Alfred Stieglitz, dei fotografi della Farm Security Administration. A partire dal 1948 è stato tra i fondatori e gli animatori della rivista Fotografia e dal 1957 al 1963 è stato redattore e poi condirettore dell’edizione italiana di Popular Photography e nel 1961 e 1963 ha curato, con Piero Racanicchi due volumi di Critica e Storia della Fotografia che raccoglievano testi e materiali sui più importanti fotografi della storia. Nel 1950 è stato tra i fondatori dell’Unione Fotografica che aveva tra i suoi obiettivi quello di spostare l’attenzione sul realismo in fotografia, promuovere manifestazioni di livello internazionale e sostenere la fotografia italiana all’estero.

Le sue serie fotografiche affrontano il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Ha lavorato su Milano, Napoli, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna, il paesaggio toscano (serie Creti senesi) ma soprattutto, dal 1953 al 1960 sul Delta del Po e le terre del Polesine, alle quali ha dedicato una grande e importante ricerca dal titolo Terra senz’ombra.

Questa mostra presenta per la prima volta più di cento fotografie di questa serie, molte delle quali assolutamente inedite.

In mostra anche importanti materiali di documentazione del progetto, scritti di Donzelli, composizioni di fotografie di Donzelli con rime di Gino Piva, geniale poeta polesano.

Il Delta del Po è un luogo-mito della cultura italiana ed è stato rappresentato in molte opere cinematografiche (Antonioni, Visconti, De Santis, Rossellini, Soldati, Vancini, Renzi, Comencini) e letterarie (Bacchelli, Guareschi, Govoni, Zavattini, Cibotto, Piva, e più di recente Celati o Rumiz).

L’opera fotografica che Donzelli, grande narratore, ha dedicato al paesaggio di pianura, al fiume, nei momenti di calma e delle rotte che tanto hanno devastato territori e uomini, al mare, al lavoro dei pescatori e del contadino, ai momenti di svago, è un vero e proprio affresco umano e ambientale. La serie Terra senz’ombra è considerata una dei pilastri della storia della fotografia italiana, e uno dei più precoci e coerenti esempi di fotografia documentaria, in cui Donzelli dimostra la sua capacità di raccontare la vera realtà umana e ambientale, tra la topografia e la sociologia.

Fradei despersi, se trovè ‘l sentiero

fradei fortuna! Ma l’è torbio el giorno

e la tera tuto un cimitero.

Bruto giorno, fradei, per el ritorno.

Gino Piva (1953)

 

Maria Paola Forlani


Foto allegate

Pietro Donzelli, 1997 (foto di Barbara Klemm)
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