Che cos’è la poesia? Anterem non è solo un semestrale di ricerca letteraria, dando piuttosto voce a un modo d’intendere la poesia, a una poetica, che non cessa di interrogare e «turbare» anche la coscienza di coloro che, come me, sono credenti. E il numero 93, appena pubblicato (Anterem Edizioni, pp. 96, euro 20), esprime più che mai tale poetica. Come scrive il direttore Flavio Ermini, «i mortali distinguono e separano, aprendo un varco all’ingannevole apparenza della molteplicità. Resta la poesia a far uscire il conoscere umano dalla sfera delle illusioni; a nominare l’essere senza dividerlo».
Scorgiamo una traccia di ciò nei versi di Marina Cvetaeva (1892-1941): «Io – pagina per la tua penna./ Tutto accoglierò. Io pagina bianca./ Io – custode del tuo bene:/ Nutro e cento volte dono il frutto». Già: per dirla con Ermini, la parola che parla nella poesia «non entra come moneta di scambio nel commercio quotidiano»; è piuttosto una lingua «di laggiù», l’unica però a poter dire che cosa davvero accade «qui», sfidando lo stesso principio di non contraddizione. La poesia è interruzione, voragine, abisso «che si spalanca d’improvviso là dove la vita sembrava proseguire piana»; non è quindi un semplice genere letterario. Essa somiglia un po’ al fiume «che unisce dividendo», secondo un verso di Ranieri Teti.
Come sostiene la filosofa e scrittrice Susanna Mati, «possiamo formulare l’ipotesi che esista una sorta di inciampo primario, un colpo, un trauma, una caduta e un accidente (…) all’origine della natura del poetico». La poesia è assai prossima «a una diversa, più antica philosophia»; a una ricerca della saggezza «che da un certo punto in poi si può solo fare, e non più dire». Aggiunge Andrea Tagliapietra, ordinario di Storia della filosofia, che «se, nel corso del tempo, i teologi e i filosofi hanno cercato di rendere ragione del silenzio della natura mediante il rigore e la superbia esclusiva delle loro dottrine», «lo sforzo dei poeti è stato quello di ascoltare il silenzio della natura per tradurne, una a una, le parole». Ecco: i poeti sopportano il silenzio. «La pazienza del poeta è attenzione». Il lavoro poetico somiglia a un processo di condensazione, grazie a cui la parola è «riportata alla sua rarità e povertà». Il contrario di quel che i luoghi comuni indicherebbero.
Come ha scritto Philippe Lacoue-Labarthe, «Qui si viene/ non per celebrare una dimora, un giardino,/ ma perché ci si è persi». Illuminante poi è il rimando di Mauro Caselli a Jacques Derrida: «Perché io condivida qualcosa, perché comunichi, oggettivi, tematizzi, la condizione è che ci sia del non-tematizzabile, del non-oggettivabile, del non-condivisibile». Ogni scrittura, cioè, «cela in sé il desiderio di non essere compresa fino in fondo». D’altra parte la Bibbia: la studiamo con rigore e metodi scientifici, ma allo stesso tempo lei ci parla comunque...
Danilo Di Matteo
(da Riforma – n. 11, 17 marzo 2017)