È sorprendente quanto lo schema della commedia – quello schema narrativo che ci è stato tramandato dall'antichità, per il quale due innamorati, il cui amore è a lungo ostacolato, riescono alla fine a riunirsi stabilmente – è sorprendente, dicevo, quanto questo schema sia longevo – tanto che lo ritroviamo spesso anche nelle commedie cinematografiche – e capace di esprimere le complicazioni psicologiche più sottili, più ambigue, magari le più perverse.
Consideriamo per esempio la commedia di una regista tedesca, Maren Ade, intitolata: Vi presento Toni Erdmann, che si è aggiudicata una nomination all'Oscar per il Miglior Film Straniero.
Il tema dell'amore è apparentemente, ma solo apparentemente, estraneo al racconto.
La protagonista è una giovane donna in carriera, che da un paese tedesco si è trasferita a Bucarest, dove è tra i dirigenti di una società che offre servizi e consulenze alle compagnie petrolifere.
La sua ambizione professionale è appagata, ma allo stesso tempo la donna è insoddisfatta. In privato, ha un'aria sempre triste e delusa. Non le mancano i corteggiatori, uno anche di buona presenza, ma lei, senza respingerlo, lo tratta con una freddezza. Il suo intimo malessere si somatizza in un'unghia incarnita che, premuta (è una delle invenzioni più disturbanti del film), provoca uno schizzo di sangue che le macchia la camicetta bianca di seta.
Un giorno viene a trovarla in ufficio a Bucarest, senza preannunciarsi, suo padre, un insegnante di musica da poco andato in pensione. Lei reagisce con imbarazzo, vergognandosi evidentemente di quel padre provinciale, estraneo all'alta società in cui adesso lei è inserita.
E allora, come per rivalsa, lui si maschera con una parrucca di cappelli lunghi e neri, con una grottesca dentiera, veste un completo scuro, e così parato si presenta alle feste ufficiali o ai luoghi di incontri di lavoro in cui sa di trovare sua figlia, spacciandosi ora per un uomo d'affari ora per un diplomatico.
Lei prima si infuria, ma poi sembra almeno un po' divertita dalle sue invenzioni.
Forse il padre vuole così rallegrarla, dal momento che la intuisce infelice.
Ma è anche vero che se il suo aspetto (e il suo comportamento) è clownesco, è anche inquietante, quasi mostruoso.
Un giorno si presenta a casa della figlia, certo per scherzo, con un polso chiuso in una manetta, e con l'altra manetta chiude il polso della ragazza e poi non trova la chiave per liberarla.
Dicevo che il tema dell'amore è solo apparentemente estraneo al racconto. Perché invece proprio di amore, o forse meglio: di passione, qui si tratta: una passione reciproca tra un padre e una figlia; una passione che si rivelerà più forte dell'ambizione professionale della ragazza. E come capita alla passione, specie quando ha almeno un sentore di incesto, è un sentimento che ha una decisa componente oppressiva.
Beninteso, a un primo sguardo il film di Maren Ade può sembrare tutt'altro da quello che vi ho raccontato. Può sembrare un film che, anche con umorismo, denuncia gli effetti alienanti, disumanizzanti, del lavoro nei piani alti dell'industria, quando la logica del profitto induce a decisioni spietate, come il taglio dei posti di lavoro degli operai.
Ma che non sia questo il vero fulcro del film, lo comprova una improvvisa, inopinata impennata surrealistica del racconto. Alla sua festa di compleanno, la giovane manager si presenta agli ospiti che ha invitato, come in un raptus, completamente nuda. Bussa alla porta suo padre travestito da enorme scimpanzé, e in quella foggia abbraccia il corpo nudo della ragazza. (E si sa che le fantasia surrealistiche rivelano i fantasmi dell'inconscio, quei desideri che abitano in noi ma che respingiamo).
Va detto che il ritratto della giovane professionista insoddisfatta, e dell'ambiente di lavoro intorno a lei, inappuntabile ma gelido, è reso con molta finezza.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 18 marzo 2017
»» QUI la scheda audio)