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Giuseppina Rando. Derek Walcott, l’Omero dei Caraibi...
19 Marzo 2017
 

È morto venerdì, 17 marzo 2017, nella sua abitazione sull’isola caraibica di Santa Lucia, dove era nato il 23 gennaio 1930. Poeta e scrittore, insignito nel 1992 del premio Nobel per la letteratura. Pur essendo cresciuto in quella piccola isola vulcanica, si considerava un uomo di frontiera, un meticcio dagli occhi verdi, “né abbastanza nero, né abbastanza povero”.

Ereditò dalla madre, affascinata da Shakespeare, l’amore per la poesia e dal padre (morto quando egli era ancora bambino), una biblioteca, ricca di libri di poesia. Ed è qui che scoprì Walt Whitman.

Tra le sue opere più importanti si ricorda Omeros (scritta nel 1990 e in Italia pubblicata da Adelphi) in cui Walcott fa rivivere la forma del poema epico contaminandola con le storie caraibiche dell’isola di Santa Lucia.

Come giustamente è stato detto, la sua è una poesia densa di “metafore intricate” che ha catturato la bellezza fisica dei Caraibi, l’eredità del colonialismo e le complessità di vivere e scrivere in due mondi culturali.

L’opera di Walcott ruota infatti attorno alla definizione dell’identità caraibica e del suo denso e difficile multiculturalismo: lui stesso veniva da una famiglia di origini africane ed europee, come racconta nella poesia:

Sono solo un nero caraibico che ama il mare
ho avuto una solida istruzione coloniale
in me c’è dell’olandese, del nero, e dell’inglese
e o sono nessuno o sono una nazione

Pur parlando l’idioma coloniale, scelse di scrivere in lingua inglese. Un inglese limpido, elegante. Tale scelta non significò però dipendenza, ma un voler rilevare la sua estraneità a qualsiasi appartenenza. Sono nessuno” diceva.

La sua era una storia di schiavi deportati dall’Africa, dolorosamente impastata di identità multiple, frammentate. E non tornò indietro dalla scelta di scrivere in inglese, neanche quando negli anni Settanta il movimento nero Black Power provò a criticarlo.

Walcott rispose a modo suo, con un verso: “Non ho altra nazione che l’immaginazione”.

Fu Josif Brodskij, suo grande amico, a capire quanto importante fosse la sua poesia e a difenderlo dalla visione riduttiva di poeta caraibico. Una poesia aperta, fisica e metafisica insieme, dove la “luce” ha una straordinaria importanza:

«…E l’alveare delle costellazioni riappare, sera dopo sera, / nella tua voce, nel buio canneto dei versi che risplende di vita…», così scrive Walcott in una lirica dedicata all’amico Josif Brodskij compresa nella raccolta  Prima luce (traduzione di Andrea Molesini) pubblicata dalla casa editrice Adelphi con altri suoi lavori, tra cui Mappa del nuovo mondo, Isole. Poesie scelte (1948-2004), e La voce del crepuscolo.

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai te stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,

sbuccia via dallo specchio la tua immagine.

Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.*

In questi versi credo si possa ritrovare tutta la poetica di Walcott che riteneva la poesia essere un lungo cammino per ritrovare se stessi. E qui avviene l’incontro più importante della nostra vita, quello con noi stessi. Un intero e lungo percorso per incontrare sé stessi, per riconoscerci, spogliandoci dalle paure, prendendo coscienza dei nostri limiti: solo così riusciremo a integrare le parti che non ci piacciono nella nostra immagine e, di fronte allo specchio o sull’uscio di casa, finalmente, saluteremo noi stessi e sapremo che nel nostro cammino non vi sono più “stranieri” ma persone fatte a mia somiglianza e della mia stessa umanità: offrirò pane e vino, allora, non solo a me stesso ma anche agli altri.

 

Pina Rando

 

 

* Da: “Amore dopo amore”, in Derek Walcott, Mappa del Nuovo Mondo, traduzione di Barbara Bianchi, Adelphi, Milano, 1992.


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