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Maria Paola Forlani. Costruire il Novecento 
Capolavori della Collezione Giovanardi
14 Marzo 2017
 

Il collezionista riunisce ciò che è affine; in tal modo può riuscirgli di dare ammaestramenti sulle cose in virtù della loro affinità, o della loro successione nel tempo.

Benjamin (1986)

 

 

La raccolta di opere di Augusto e Francesca Giovanardi ha preso forma nella Milano dell’immediato secondo dopoguerra, grazie alla passione verso la pittura del Novecento italiano e all’impegno sociale dell’illustre scienziato e docente di Igiene presso l’Università di Milano.

La collezione è una testimonianza eccellente di quello straordinario momento storico e culturale durante il quale imprenditori e importanti personalità della società italiana, in particolare milanese e torinese, dedicarono il loro impegno all’arte e alla cultura, non solo per passione personale, ma con fini sociali ed etici. Basti ricordare i nomi di Raffaele Mattioli, Riccardo Juker, Jesi, Boschi, Vitali, il cui sentimento di responsabilità nei confronti della comunità si è espresso attraverso importanti lasciti e comodati a musei pubblici della parte più rappresentativa delle loro raccolte.

La mostra “Costruire il Novecento. Capolavori della Collezione Giovanardi”, si è aperta a Bologna a Palazzo Fava – Palazzo delle Esposizioni fino al 25 giugno 2017 ed espone la Collezione nella sua interezza, novanta dipinti realizzati dai migliori pittori italiani, attivi tra le due guerre mondiali. Promossa da Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna e Genus Bononiae. Musei della Città, la mostra è curata da Silvia Evangelisti (catalogo Bononia University Press).

L’esposizione si articola in tre sezioni, ciascuna dedicata ad un tema che approfondisce le opere di due o più artisti nel cui linguaggio artistico si possono trovare assonanze (o dissonanze) comuni: Licini e Morandi. Un rapporto controverso; La pittura costruttiva del Novecento italiano: Campigli, Carrà, Sironi e Oltre la forma: il sogno e la terra.

Giorgio Morandi e Osvaldo Licini, sono due tra i più importanti maestri del ‘900, genio già venerato in vita il primo, meno famoso ma pittore amatissimo il secondo. Furono amici nella giovinezza e “nemici” nella maturità, avendo instaurato un rapporto di contiguità sfociato poi in scelte stilistiche agli antipodi.

Si conoscono all’Accademia di Belle Arti di Bologna, dove studiano accanto a Mario e Severo Pozzati, Giovanni Romagnoli, Mario Tozzi e Antonio Sant’Elia. Condividono in quegli anni idee e pittura, Morandi e Licini furono protagonisti della famosa esposizione “futurista” di un sol giorno, tenutasi all’Hotel Baglioni tra il 21 e il 22 marzo 1914.

La mostra prende avvio da questo rapporto giovanile, da queste opere, per poi dispiegarsi confrontando le esperienze e le scelte dei due Maestri che si fanno via via divergenti: mentre la pittura morandiana mantiene una fondamentale unità e misura, quella di Licini è sempre più libera dai rapporti naturalistici, fino ad aprirsi all’astrattismo durante agli anni Trenta.

Dopo la guerra l’abisso si fa ancora più profondo: Morandi rimane legato alla sua città e ad una quieta vita “borghese” mentre Licini è esempio di anticonformismo, attratto dall’Europa, soprattutto in seguito ai soggiorni parigini durante i quali stringe amicizia con Amedeo Modigliani ed entra in contatto con l’avanguardia internazionale.

Al contrario Morandi vive forte il contatto con la pittura del Novecento. Dopo i primi approcci con la metafisica e un lungo periodo all’insegna dell’inquietudine, nel 1935 vince il premio alla Quadriennale di Roma che inaugura un decennio felice: la perfezione è ritrovata, la sicurezza raggiunta. Torna la luce solare e compare anche qualche colore brillante.

Nella seconda sezione “La pittura costruttivista del Novecento italiano: Campigli, Carrà, Sironi” viene esaltato il rapporto tra pittura ed architettura e le reciproche influenze. Nel clima di “ritorno al mestiere” tipico di quel periodo, il richiamo alla materia pittorica dell’affresco è elemento comune a molti artisti all’aprirsi del nuovo decennio. In questi anni, nei grandi cantieri favoriti dal regime fascista, si aprono nuove opportunità per la pittura murale e il mosaico, dalla “Prima Triennale” di Milano nel ’31, alle grandi decorazioni dei nuovi Palazzi di Giustizia, dalle stazioni alle università agli uffici pubblici, si susseguono per tutti gli anni Trenta commissioni di estrema rilevanza a cui partecipano artisti come De Chirico, Severini, Campigli e Sironi.

La pittura di Massimo Campigli, fatta di materia pittorica pastosa e tenera che si rifà all’affresco, ha la sua struttura portante nello spazio architettonico indagato plasticamente nell’equilibrio compositivo, nel senso tridimensionale delle sue figure dalle sagome esatte, ispirate a un’antichità strappata al mito e riportata alla quotidianità della vita corrente. Diversamente dai suoi compagni di strada, Campigli rivisita l’arte etrusca, la pittura pompeiana, l’arte bizantina non con spirito archeologico ma con la fascinazione di ritrovare nell’antico le radici del contemporaneo.

Ad una concezione pittorica spaziale architettonica approda anche Carlo Carrà quando chiusa l’avventura futurista, nel 1916 pubblica su La Voce due famosi scritti (“Paolo Uccello costruttore” e “Parlata su Giotto”) e muta radicalmente il proprio linguaggio dalla scomposizione avanguardista della forma ai nuovi valori solidi delle opere degli Anni Venti (San Giorgio Maggiore, 1926, La barca 1928, in Collezione Giovanardi).

Sempre più, nelle opere degli anni Trenta e Quaranta, la concezione spaziale della composizione diviene centrale e la sintesi formale prende il sopravvento sul puro dato emotivo (Marina con albero, 1930, Nuotatori, 1932 e Marina, 1940 tutte Collezione Giovanardi).

Nella terza sezione “Oltre la forma: il sogno e la terra” il tema fondamentale è la messa in crisi del realismo da parte dei grandi protagonisti dell’arte italiana alla fine degli Anni Trenta.

Nella seconda metà di quel decennio si avverte nelle opere dei pittori e degli scultori uno sfaldamento della plasticità formale, pur all’interno di generi classici perfettamente codificati e ripetutamente indagati, come il ritratto, il paesaggio o la natura morta, in favore di ricerche artistiche che si rivolgono sempre più determinate verso un’idea diversa di forma, momento cruciale che prelude alle numerose sperimentazioni legate all’astrattismo e all’apertura, all’inizio degli anni ’50, verso la grande stagione informale. In questo ambito si sono rilevate due tendenze principali, nettamente riconoscibili all’interno della Collezione Giovanardi: che i curatori hanno definito “il sogno” e una “la terra”.

I pittori della “Terra” mirano al superamento di una rigorosa struttura formale tramite una pennellata fortemente terrosa, materica, ctonia. Come Arturo Tosi, Ottone Rosai e Mario Mafai.

Al gruppo del “Sogno” attiene invece Filippo De Pisis, fautore di una pittura eterea che sfalda la consistenza degli oggetti fino a farla trascolorare nel nulla della tela grezza. Di segno analogo i paesaggi e le nature morte di Pio Semeghini, circonfusi di un’atmosfera onirica, presente anche nelle vaporose vedute di Cesare Breveglieri.

Tutte queste esperienze costituiranno un momento d’importante riflessione sul rapporto tra rappresentazione e realtà, lungo un percorso che sfocerà, con Mauro Ruggeri (ma non solo), ad un’idea di astrazione che vedrà nella perfezione geometrica la più alta aspirazione dell’uomo.

 

Maria Paola Forlani


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