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Gianfranco Cercone. “Moonlight” di Barry Jenkins
27 Febbraio 2017
 

Si sa che se l'espressione dei sentimenti – nella loro ampia gamma, nelle loro infinite sfumature – è all'origine di ogni opera d'arte, quell'espressione tende a volte a degenerare nel sentimentalismo. Cioè nell'esasperazione artificiosa di alcune tonalità dei sentimenti, di solito le più dolci, le più tenere.

Ora, almeno un sospetto di sentimentalismo compromette la piena riuscita di un film, comunque buono, a momenti decisamente bello, come Moonlight di Barry Jenkins. Un film americano, di produzione indipendente, che ha vinto il Golden Globe come miglior film drammatico e ha ottenuto 8 nominations agli Oscar fra le quali quella per il miglior film.

Si tratta di uno straziante romanzo di formazione, il cui protagonista è un nero, cresciuto nei ghetti di Miami, vittima a scuola da bambino e poi ancora da adolescente, di un bullismo, da parte degli stessi neri, che con il passare del tempo acquista sempre più le ragioni, i connotati dell'omofobia. Finito in galera – proprio per avere alla fine, esasperato, reagito con violenza alla sua persecuzione – diventa uno spacciatore “professionista”, assumendo il corpo, i gesti, la scorza dura almeno in apparenza, che si richiedono a un criminale.

Insomma: più che della formazione – nel senso positivo del termine – di un un uomo maturo, si racconta di una deformazione, perché la personalità che l'uomo si impone, nata per reazione a un ambiente ostile, non corrisponde, anzi imprigiona, la sua autentica sensibilità.

Come anticipavo, il film comprende vari momenti del tutto riusciti. Fra questi il rapporto che, da bambino, il protagonista instaura con uno spacciatore adulto: l'uomo che resterà, nella sua immaginazione, un modello ideale, e che, proteggendolo, fungendo per lui da quel padre che gli manca (mentre la madre lo trascura perché è tossicodipendente), riuscirà a vincere la diffidenza del suo animo ipersensibile e ferito. È un rapporto che risulta tanto più vero perché, seppure, a quanto vediamo, non ha per nulla i tratti della pedofilia, è già soffuso, almeno agli occhi del bambino, di un erotismo forse inconsapevole. Un erotismo che poi si svilupperà nella seconda parte del film, dedicata alla sua adolescenza, diventando manifestamente omosessuale, e tanto più sensuale e violento. Si indirizzerà a un suo compagno di scuola, con il quale perderà la verginità (ed è un altro dei momenti migliori del film, di dolorosa verità. Dolorosa per il contesto di emarginazione, di sottocultura, in cui l'episodio avviene; e perché il suo primo amante passerà presto dalla parte dei suoi persecutori.)

Ma dicevo all'inizio del difetto del sentimentalismo. Lo si avverte in particolare nella terza parte del racconto, quando i due amanti, in età adulta, si ritrovano e nella reciproca tenerezza si consolano a vicenda: l'uno di aver dovuto assumere la maschera del duro e di essere diventato un delinquente; l'altro di non avere comunque realizzato i sogni della propria gioventù.

Ma il rischio del sentimentalismo attraversa tutto il film, e ha forse radici nella impostazione non del tutto convincente, con cui è affrontato il tema centrale del bullismo.

La divisione dei personaggi tra cattivi persecutori e il buono perseguitato (e i suoi affettuosi alleati) risulta un po' semplicistica perché non dà conto della dialettica di ogni relazione umana, e insomma della connivenza, forse inevitabile, tra i persecutori e il perseguitato, se non altro, come in questo caso, per la prolungata inerzia di quest'ultimo. È una relazione morbosa, in cui può insinuarsi, in modo insidioso, in tutti i suoi attori, anche l'eros: un eros di specie sadomasochistica, come è suggerito, ma molto timidamente, nella seconda parte del racconto.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 25 febbraio 2017
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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