La situazione dei giovani nati tra il 1980 e il 2000 (i cosiddetti Millenials) non è grave. Anzi, in verità, non c’è neanche una situazione specifica da analizzare. C’è solo un passaggio storico, un cambio di epoca, un viraggio di prospettiva. Questo sì, tutto da analizzare. Evidentemente prima del 1989 esisteva una generazione che voleva «cambiare il mondo». L’undicesima delle tesi su Fuerbach di Karl Marx suonava: «I filosofi hanno sinora diversamente interpretato il mondo, si tratta adesso di cangiarlo». Ma anche questo non è importante. Nemmeno questo è importante. Esisteva però una generazione che nel suo sforzo di voler cambiare le cose (il cosiddetto «sistema» – termine omologo a quello coniato da Ludwig von Bertalanffy per quanto riguarda le caratterizzazioni della scienza e, grazie a David Easton, similare al concetto, tutto politico, di sistema in quanto «attraverso le sue operazioni esso porta a decisioni accettate il più delle volte come vincolanti dalla maggioranza dei membri di una società o di una collettività» (D. Easton, The political system: an inquiry into the state of political science, New York, 1953; trad. it.: Il sistema politico, Milano, 1963) si portava dietro tutta una serie di contraddizioni, di sentimenti, di passioni che la resero unica e inconfondibile nella storia dell’uomo. Ma anche questo non è importante! Semplicemente quello che è importante è che la generazione precedente ai Millennials aveva in se stessa qualcosa come la speranza. La voglia di cambiare, il desiderio di fare qualcosa affinchè tutta la società avesse potuto trovare un assetto migliore, la voglia di «credere di credere» (come amerebbe dire Gianni Vattimo). Insomma sia pure con tutte le storture, i pentimenti, le cose che non hanno funzionato come si era sperato, le crudetà del sistema e di chi credeva, a torto o a ragione, di poter «cambiare il sistema»: prima della generazione attuale dei giovani si sperava. Naturalmente a Napoli si dice ‘cca nisciuno è fesso ed è ovvio che sia così: in questa sede non si sta facendo affatto l’esaltazione del comunismo stalinista, neppure delle lotte sociali del 1968 e neppure di Mao, Lin Piao o Enrico Berlinguer. Non si sta facendo niente di tutto questo: si sta semplicemente constatando un fatto. La generazione precedente a questa aveva la speranza (il «Principio Speranza» avrebbe detto Ernst Bloch). In definitiva anche quell’esperienza è finita male, forse anche malissimo. Io non intendo esaltare niente e nessuno: mi accorgo semplicemente di qualche fatto: quella generazione ha fatto i suoi errori ed è stata anche punita per questo: ma rimane un fatto indubitabile: quella generazione sperava. Partendo dal mero dato di fatto si voleva migliorare il mondo, si voleva rendere più accogliente l’ambiente in cui si stava: non ci si accontentava dell’ovvio quotidiano. Si tendeva verso qualcosa di indefinito. Si sperava. I Millennials non hanno più il «Principio Speranza» come loro musa ispiratrice: anzi non hanno nemmeno più alcuna attenzione alla voglia di cambiare le cose. Essi lasciano le cose come stanno e si macerano, e si dilaniano. Trionfano nelle letture autori dome Nietzsche e Shopenhauer. Trionfano modi di vita conformati a una solitudine quasi totale (Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Milano, 1999). Si fanno avanti strane tendenze psicologiche e sociali tendenti a una sempre maggiore compressione dei giovani subita dalla tecnologia che diventa onnipervasiva. I rapporti umani si fanno «liquidi» (Zigmunt Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, 2000). In una parola: alla speranza viene sostituita l’attesa di una conformazione psicologica (centrata sull’interioità) che tenta di esorcizzare – e che gioca con – paure e ansie rimosse, appuntamenti mancati e fughe dalla realtà.
Povero Maurizio Ferraris! Questo filosofo, infatti, ci ha messo più di trent’anni per arrivare al «Nuovo Realismo» (Maurizio Ferraris, Manifesto del Nuovo Realsimo, Roma-Bari, 2012) e se lo vede adesso smentito nei fatti dalla stessa generazione alla quale, probabilmente, appartiene anche suo figlio. Non più realtà ma rappresentazione mediatica della stessa. Non più «voglia di cambiare» e speranza in un futuro migliore ma attenzione solo ai «cambiamenti» tecnologici (Emanuele Severino, Techne. Le radici della violenza, Milano, 2010). Non più desiderio di qualcosa di «nuovo» ma, come unica ambizione, lo scavo dei propri mezzi cognitivi attraverso la prova del nove di una interpretazione (Fridrich Nietzsche, Frammenti postumi, Milano, 1964) sempre, questa sì, mutevole e cangiante ma orientata, oggi più che mai, alla constatazione che «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, 2002). Quest’ultimo, anzi, è proprio il motto della tecnologia. La generazione attuale dei giovani è dunque più orientata verso la negazione della speranza, del progetto, della voglia di «qualcosa di buono» (come raccontava la pubblicità del Ferrero Rocher di qualche anno fa). Questi giovani, adesso, hanno in testa – cibernetica a parte – soltanto la voglia di guardare i propri limiti e la propria condizione umana al di là della partecipazione ai temi politici e sociali e al di là del desiderio di poter influire nelle scelte che contano a tutti i livelli. Questi ragazzi vogliono solo ragionare su se stessi. Vogliono solo poter conmtare sulle proprie forze. E si distanziano dal mondo per entrare definitivamente nella cybersfera (Pierre Levy, Il virtuale, Milano, 1997). Non sappiamo se questo sia un bene o se questo sia un male. Fatto sta che si è gettato via il sogno per barattarlo col pessimismo.
Gianfranco Cordì