Il cardinal Alfonso Lopez Trujillo spezza una lancia in favore delle cosiddette unioni di fatto. Senza accorgersene, ovviamente. Nell’intervista raccolta da Luigi Accattoli, per il Corriere della Sera di lunedì 11 dicembre, Sua Eminenza afferma di temere che «si arrivi a una legge che tratta delle unioni di fatto come se fossero matrimoni».
«Perché questo le pare inaccettabile?», chiede Accattoli. Sua Eminenza risponde: «Perché depotenzia la famiglia fondata sul matrimonio. Si prospettano delle alternative a essa altrettanto tutelate senza esigere gli impegni che essa comporta e dunque la si riduce a una condizione svantaggiata: se posso avere lo stesso senza assumere impegni, perché assumerli?» Tutele, impegni e vantaggi: questi i punti.
Sua Eminenza, dunque, ammette – e sarebbe già tanto, se si trattasse solo di questo – che la questione sia posta dall’esigenza di tutele. A questo punto gli basterebbe aggiungere che a queste tutele abbiano diritto solo le coppie unite nel sacramento del matrimonio per collimare il Catechismo(1) e il Codice di Diritto Canonico(2) al luogo comune. Ma si dà il caso che il matrimonio civile non sia un sacramento, anche se la Chiesa da qualche decennio ha qualche timidezza nel dirlo, per quanto nulla sia cambiato dai tempi in cui il matrimonio civile era considerato concubinaggio pubblico,(3) almeno sulla carta.
Con la sua affermazione, che non sfiora la differenza tra matrimonio religioso e matrimonio civile, Sua Eminenza ammette il porsi di una questione di tutele per una coppia unita in convivenza. Non ha importanza, al fine di ciò che egli afferma, perché queste tutele spettino ad una coppia di coniugi sposati con rito religioso o civile e non ad una coppia di fatto. Fatto sta che, se spettano ad una coppia di coniugi sposati con rito civile, non è la sacramentalità del rito religioso ad esserne la premessa sufficiente: queste tutele, dunque, spetterebbero anche a chi si è unito col rito civile. Che, per inciso, non vincola i coniugi all’indissolubilità del matrimonio, che è il cardine dell’unione sacramentale, stante il diritto al divorzio nel vigente ordinamento civile dello Stato. Né Sua Eminenza sfiora l’argomento della natura di queste tutele, poiché esse vengono assicurate dallo Stato e procedono, quale che sia la forma dell’unione, da una scelta consensuale basata su una delle infinite misure dell’affettività,(4) sicché neanche Sua Eminenza si sogna di metterle in discussione se in favore di coniugi uniti col rito civile. Quando la Chiesa chiede aiuto e sostegno in favore della famiglia, per esempio, non fa alcuna distinzione tra sposi uniti in matrimonio davanti a un prete o davanti a un pubblico ufficiale.(5)
Orbene, cosa teme il cardinal Trujillo? Teme che, se un modello di coppia non matrimoniale venga a godere di quelle tutele senza una contropartita di impegni pari a quella che si sottoscrivono in un modello di coppia matrimoniale, forme «alternative» al modello di coppia matrimoniale siano«altrettanto tutelate senza esigere gli impegni» che quello«comporta», si possa arrivare a ridurre quel modello a«condizione svantaggiata». Ebbene, la domanda con la quale Sua Eminenza crede di aver chiuso la questione, in realtà, la apre. Egli dice:«Se posso avere lo stesso senza assumere impegni [in realtà: assumendone in misura minore di quanto impliciti nel modello di coppia matrimoniale], perché assumerli?» Con ciò – ed ovviamente senza accorgersene – il cardinal Trujillo centra il punto in favore dei Pacs: perché alcune tutele dovrebbero essere assicurate a queste forme «alternative» di unione? Cioè: perché si dovrebbe ammettere un diritto che non sia corrispettivo del dovere che ne è contropartita? Ma, benedetto Trujillo, per lo stesso motivo per il quale matrimonio religioso e matrimonio civile sono equiparati nelle tutele pur nella evidente disparità di impegno assunto relativamente alla indissolubilità. Se taci sulla differenza che c’è tra matrimonio religioso e matrimonio civile, taci pure sulla differenza tra matrimonio e Pacs. Sennò, come minimo, lasci intendere che non intendi lasciare scelta nell’assunzione (consensuale) di impegni se non in una scala di valori di contropartita che la Chiesa intenda “concordare” con lo Stato.
E come sarebbe mai possibile? Il matrimonio religioso è un sacramento, quello civile non lo è; il matrimonio religioso è indissolubile, quello civile non lo è. Se alla laicità dello Stato è consentita la formulazione di modalità «alternative» all’unico tipo di «matrimonio valido» per la Chiesa – e il matrimonio civile lo è – perché i Pacs sarebbero concorrenti del matrimonio civile? Al massimo, sarebbero l’ennesima forma di concubinaggio che lo Stato ammette e sancisce. E allora perché non suonano più le campane a morte ad ogni matrimonio celebrato da un sindaco invece che da un prete?
Luigi Castaldi
(da Notizie radicali, 14 dicembre 2006)
Note
(1) Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il matrimonio è una realtà ecclesiale» (1630). «È per questo motivo che la Chiesa normalmente richiede per i suoi fedeli la forma ecclesiastica della celebrazione del matrimonio» (1631). «Poiché il matrimonio stabilisce i coniugi in uno stato pubblico di vita nella Chiesa, è opportuno che la sua celebrazione sia […] inserita in una celebrazione liturgica, alla presenza del sacerdote (o del testimone qualificato della Chiesa)» (1663).
(2) Codice di Diritto Canonico: «Tra i battezzati non può sussistere un valido contratto matrimoniale, che non sia per ciò stesso sacramento» (Canone 1055 - §2). «Sono validi soltanto i matrimoni che si contraggono alla presenza dell'Ordinario del luogo o del parroco o del sacerdote oppure diacono delegato da uno di essi che sono assistenti» (Canone 1108 - §1).
(3) «Siamo a Prato, a metà degli anni ’50. Mauro Bellandi e Loriana Nunziati si sposano in municipio con rito civile. Monsignor Pietro Fiordelli, il vescovo, prende carta e penna, e scrive una lettera a don Danilo Aiazzi, responsabile della parrocchia dei due, il quale la pubblica sul giornalino diocesano: Oggi, 12 agosto, due suoi parrocchiani celebrano le nozze in Comune rifiutando il matrimonio religioso. Questo gesto di aperto, sprezzante ripudio della religione è motivo di immenso dolore per i sacerdoti e per i fedeli. Il matrimonio cosiddetto civile per due battezzati assolutamente non è matrimonio, ma soltanto l’inizio di uno scandaloso concubinato […] Pertanto lei, signor Proposto, alla luce della morale cristiana e delle leggi della Chiesa, classificherà i due tra i pubblici concubini e, a norma dei canoni 855 e 2357 del Codice di Diritto Canonico, considererà a tutti gli effetti il signor Bellandi Mauro come pubblico peccatore e la signorina Nunziati Loriana come pubblica peccatrice. Saranno loro negati i sacramenti, non sarà benedetta la loro casa, sarà loro negato il funerale religioso […] Infine, poiché risulta all’autorità ecclesiastica che i genitori hanno gravemente mancato ai propri doveri di genitori cristiani, permettendo questo passo immensamente peccaminoso e scandaloso, la Signoria Vostra, in occasione della Pasqua, negherà l’acqua santa alla famiglia Bellandi e ai genitori della Nunziati Loriana. La presente sia letta ai fedeli. Amen. La lettera fu letta da tutti i pulpiti di Prato, poco mancò che i panettieri si rifiutassero di vendere il pane alle famiglie Bellandi e Nunziati, che si videro costrette a querelare monsignor Fiordelli e don Aiazzi. I giudici concessero che le leggi della Chiesa non possono contenere norme che autorizzino le autorità ecclesiastiche a ledere un bene del cittadino tutelato dalle leggi dello Stato, ma la condanna fu simbolica: un’ammenda di 40.000 lire. L’indignazione della Santa Sede fu terribile e si levò alto un grido – indovinate quale – “laicismo!”. Via radio partì l’ordine a tutte le Nunziature Apostoliche d’Occidente di organizzare manifestazioni di solidarietà verso monsignor Fiordelli, di suonare ogni giorno le campane a morto per cinque minuti e di listare a lutto i portali di tutte le chiese italiane per un mese. Lo Stato italiano non cedette, il Vaticano deglutì bile» (Luigi Castaldi, Notizie Radicali 21/02/2006).
(4) Chissà, Sua Eminenza avrà letto da qualche parte di Adelina Parrillo, compagna e convivente, ma non moglie, di Stefano Rolla, uno dei due civili italiani morti nella strage di Nassiriya. Il 12 novembre la Parrillo si era recata, come i familiari delle altre vittime dell’eccidio, all’Altare della Patria per una commemorazione – la cosa deve far riflettere – civile, non religiosa. La Parrillo è stata allontanata e non vi ha potuto partecipare. La cosa grave non è che sia stato un sagrestano ad impedirle di entrare in chiesa per i funerali del suo uomo, in quanto pubblica concubina, ma qualche zelante rappresentante delle forze dell’ordine di uno Stato che si dice laico e – si noti bene – da un sacrario civile. Prendo ad esempio questo caso, perché la tutela cui la Parrillo non aveva diritto non era – nello specifico –relativa a pensioni di reversibilità e volture di contratto di affitto, né di eredità: la tutela cui la Parrillo non aveva diritto, al cospetto di questo Stato, era relativa al riconoscimento della sua condizione di donna che amava un uomo, che conviveva con lui – more sed non lege uxorio – e che dopo la sua morte voleva commemorarlo nelle forme che lo Stato aveva ritenuto degne per le compagne degli altri caduti, ad essi uniti in vincolo matrimoniale o di consanguineità. Se era una cugina di secondo grado, era tutt’altro paio di maniche: l’avrebbero fatta partecipare alla cerimonia.
(5) Dunque, la questione sta in questi termini: il cardinal Trujillo riconosce una naturale insorgenza di diritto a tutele da parte di una coppia unita in matrimonio e non può fare – o non vuol fare – distinzione tra matrimonio religioso e matrimonio civile. Pare comprendere quali siano i vantaggi di queste tutele, che peraltro sarebbero a carico dello Stato, certo non della Chiesa. E pare comprendere che la loro contropartita sia negli impegni che consensualmente si assumono: volendo graduarne l’intensità, secondo la logica dell’ortodossia cattolica romana, potremmo dire che essi siano: massimi nel matrimonio religioso; appena inferiori col matrimonio civile (non fosse altro per il fatto che esso non è indissolubile); e minimi con i Pacs.