Forse non c'è modo migliore per descrivere il senso di completezza che una fede – qualunque essa sia – può infondere in chi la possiede, che raccontare la pena per lo smarrimento di quella fede; così come – se mi si consente un paragone – la ricchezza, il lusso, risultano tanto più sfolgoranti se messi a confronto con la miseria.
Silence – l'ultimo film di Martin Scorsese, che ha ottenuto scarsi incassi negli Stati Uniti, che ha ricevuto agli Oscar soltanto una nomination ritenuta minore (per la fotografia di Rodrigo Prieto) – rischia di essere archiviato come un film “maledetto” di quel grande autore che è Scorsese.
Può forse allontanarci dal film, convincerci a non andarlo nemmeno a vedere, un sospetto di agiografia: che cioè i due protagonisti siano due santini.
Come forse saprete, si tratta di due missionari gesuiti portoghesi, in viaggio nel Giappone del 1600 – quando le minoranze cristiane erano crudelmente perseguitate – alla ricerca del loro padre spirituale, che si dice abbia rinnegato la fede cattolica.
È la premessa, come si vede, di un romanzo avventuroso, sia pure di tematica religiosa; attraverso i due protagonisti scopriamo vari luoghi del Giappone, e in particolare certi villaggi di contadini dove il cristianesimo ha attecchito e viene clandestinamente praticato; e conosciamo i persecutori dei cristiani, e in particolare un funzionario dell'Impero, chiamato “l'Inquisitore”, che, come spiega lui stesso con i suoi modi diplomatici, sorridenti, ma che possono diventare improvvisamente gelidi, temendo che la diffusione del Cristianesimo possa compromettere l'indipendenza del Giappone, assoggettarlo alle nazioni cattoliche europee, deve estirpare quella religione dal suo paese. E ricorre per questo alla violenza più feroce, come all'astuzia più sottile.
Chiede in particolare a uno dei missionari di essere di esempio ai contadini convertiti al Cristianesimo, rinnegando pubblicamente la propria religione, attraverso un rito ricorrente per tutto il film: calpestando, con il piede nudo, un'immagine sacra.
Dicevo del sospetto di agiografia che incombe sul film. Eppure c'è almeno un aspetto del racconto che non appartiene, anzi si contrappone, all'unidimensionalità dell'agiografia. Ed è il dubbio di uno dei due missionari. Un dubbio che investe in un primo tempo la stessa esistenza di Dio; e poi cosa è giusto e cosa è ingiusto fare. Un dubbio che nessuna certezza, nessuna illuminazione provvederà a risolvere.
Insomma: il missionario – per risparmiare torture, vessazioni, ai suoi correligionari giapponesi – sarà indotto a compiere pubblicamente un'abiura; e non una, ma tante volte, per tutto il corso della sua vita.
Sembra che quella decisione gli sia ispirata dalla stessa immagine di Cristo, come un atto di carità, per salvare altri cristiani dal martirio. Ma che egli stesso dubiti della propria scelta, che la ritenga un tradimento forse irrimediabile della propria fede, lo comprova il senso di svuotamento, di perdita di significato della propria vita, a cui va incontro: una vera catastrofe interiore, che i benefici che le autorità giapponesi gli elargiscono non possono evidentemente compensare. (L'immagine conclusiva del film ci rivelerà tuttavia che almeno una fiammella di fede sopravviveva in lui.)
Insomma: il film di Scorsese più che un inno trionfante, tutto luminoso, alla fede cattolica, esprime, almeno nel suo nucleo più autentico, il dolore di una fede vacillante o forse perduta. E guarda dall'esterno, con ammirazione, la fede forse ingenua, ma integra, pura, dei contadini giapponesi – le immagini che li riguardano sono tutte molto belle – che affrontano il martirio avendo negli occhi la speranza di un mondo migliore ultraterreno.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 28 gennaio 2017
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