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Marisa Cecchetti. “Il pastore d’Islanda” di Gunnar Gunnarsson
24 Gennaio 2017
 

Gunnar Gunnarsson

Il pastore d’Islanda

Traduzione di Maria Valeria D’Avino

Iperborea, 2016, pp. 160, € 15,00

 

In un paesaggio dove la neve cancella ogni riferimento, dove le possibilità di sopravvivenza sono improbabili, da ventisette anni rinnova il suo viaggio il pastore d’Islanda, nell’omonimo romanzo di Gunnar Gunnarsson (1889-1975), scrittore islandese vissuto a lungo in Danimarca, che ha scritto i romanzi in danese e poi li ha tradotti lui stesso nella lingua madre. Il pastore d’Islanda, edito nel ’36, mantiene il valore ed il fascino dei grandi della letteratura, superando ogni confine temporale.

Benedikt è il pastore che parte la prima domenica d’Avvento insieme al cane Leo ed al montone Roccia, per recuperare le pecore che sono rimaste sperdute sulle montagne, non rientrate ai richiami prima delle grandi nevi. Sono animali che non gli appartengono, ma questo recupero per lui è un obbligo morale, una necessità di sottrarle alla morte. Lo conoscono tutti, Benedikt, e nei rari rifugi dispersi lungo il cammino lo attendono per offrirgli il riparo di una notte ed una piatto caldo, sicuri che arriverà con una precisione cronometrica.

È un mondo agricolo pastorale dove la condivisione e l’aiuto reciproco sono indispensabili, un mondo non scevro tuttavia da meschini egoismi: lui è un puro di cuore, accoglie anche altri lungo il cammino, che sfruttano le sue capacità di orientamento e lo alleggeriscono di viveri, mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza e quella degli animali.

I tempi si allungano più del previsto a causa delle condizioni metereologiche che non permettono di avanzare e lo costringono, insieme a Leo e Roccia, a seppellirsi in una buca profonda che si è preparato in tempi migliori, scomparendo sotto la neve. Gli animali che lo aiutano hanno la dignità di persone, di loro si può fidare, con loro divide cibo e rifugio. Abnegazione, spirito di sacrificio, una grande resistenza, il rispetto profondo della natura e delle sue leggi, una fede profonda, tutto questo dà a Benedikt la capacità di affrontare le situazioni più drammatiche facendo leva su ogni risorsa, pronto a vivere come a morire.

Il silenzio domina e inghiotte ogni paura – o la dilata? – ma se la paura esiste è inconfessata. Benedikt che sfida se stesso e gli elementi ricorda il grande vecchio di Hemingway.

È un viaggio che cela significati simbolici: il sangue degli zoccoli di Roccia rimane a macchiare il candore della neve, evidente allusione ad ogni forma di sofferenza e di sacrificio.

Romanzo dal linguaggio leggero come i fiocchi di neve e come una poesia, che rasserena lo spirito, nonostante le situazioni di pericolo: perché a Natale si nasce, non si muore, e il lettore vuole sperare in un miracolo, e Benedikt è il vero miracolo.

 

Marisa Cecchetti


 
 
 
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