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Giuseppina Rando. A che vale ricordare? 
Nota di riflessione per il giorno della Memoria
22 Gennaio 2017
 

Nel 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha fissato al 27 gennaio di ogni anno la commemorazione delle vittime dell’Olocausto, momento “eccezionale” della Storia che ha visto quindici milioni di morti in pochi anni, tra cui 5-6 milioni di ebrei, di entrambi i sessi e di tutte le età.

Era il 27 gennaio del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di sterminio di Auschwitz e ne scoprirono la “vergogna”.

Per l’Europa liberata, ma ridotta in macerie, si rese subito necessario un programma di trasformazioni e innovazioni di carattere politico, sociale, economico e culturale.

Sono trascorsi 72 anni e se, certamente, rimane nella memoria quel tragico periodo e il ricordo di milioni di vittime uccise dalla follia nazista e dalla guerra, ancora più vivo è in noi lo strazio di fronte all’olocausto di oggi, martiri i bambini della Siria decapitati davanti agli occhi dei genitori e altre atrocità come i bambini vivi gettati dai fanatici del Califfato nelle impastatrici degli stabilimenti sequestrati; stragi di matrice terroristica, profughi e tutti quelli che fuggono dall’inferno dei Paesi in guerra per trovare la morte in mare. E l’elenco potrebbe continuare.

A che vale ricordare?

Il male, la violenza, la guerra ci assalgono in forme sempre diverse, ora subdole ora manifeste. La vita dell’uomo appare sempre più segnata radicalmente dal male e non quello esistenziale legato alla fragilità e al limite dell’essenza stessa dell’uomo.

Il problema del male, che filosofi e teologi di ogni epoca hanno dibattuto e argomentato, è molto ampio e complesso, ha origini oscure e non credo possa mai risolversi in quanto legato al soggetto uomo e al suo essere unico, alla sua libertà di scegliere tra il Bene e il Male.

C’è un brano della Suttapitaka, testo della tradizione spirituale indiana, che recita: Se nella mano non hai ferite, tu puoi tenere in mano il veleno, perché non c’è avvelenamento dove non c’è ferita. In modo analogo, non c’è male per chi non ne commette. Un modo semplicistico, forse, per sostenere che non c’è male per chi non ne commette.

Sappiamo tutti che la realtà è più complicata: la creatura umana è limitata, fragile e debole, immersa in un mondo che la lusinga e la insidia. Per di più la superficialità, l’indifferenza, l’orgoglio, l’avidità, il desidero di “potere” spingono la persona a non curarsi né delle ferite né del rischio di essere infettate dal male.

Francesco De Santis nella sua celebre Storia della letteratura italiana, molto acutamente annota: «Quando un male è sparso dappertutto e diventa così ordinario che se ne ride, è cancrena e non ha rimedio».

Ciò che manca ai nostri giorni ritengo sia questa consapevolezza.

Si fa prevenzione contro tutti i rischi per la salute fisica con vaccini di ogni genere, ma nessuna profilassi contro il tarlo del male che, attraverso mille canali, può penetrare nella mente e nello spirito. E così attraverso le piccole ferite della superficie della vita, passa il contagio morale che intossica la coscienza e il cuore .

 

A che vale ricordare, dunque, le vittime dell’Olocausto e altri genocidi del secolo scorso, se non ci accorgiamo o guardiamo con indifferenza le vittime della guerra e della violenza che ogni giorno stanno sotto i nostri occhi?

A che vale ricordare il passato se ne manca la coscienza, naufragata nella temporalità dell’eterno presente? Quell’eterno presente della società classista di oggi che, vivendo chiusa nell’egoismo e nella sete di potere, non sapendo valutare il passato sarà senza futuro.

A che vale ricordare se nelle strade delle nostre città e di tanti Paesi del mondo continua a vagare – ignorata dai più – l’immagine dell’uomo-larva di Primo Levi* “scolpita” tra le pagine del memoriale Se questo è un uomo?

Voi che vivete sicuri 
nelle vostre tiepide case, 
voi che trovate tornando a sera 
il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo 
che lavora nel fango 
che non conosce pace 
che lotta per mezzo pane 
che muore per un sì o per un no. 
Considerate se questa è una donna, 

senza capelli e senza nome 
senza più forza di ricordare 
vuoti gli occhi e freddo il grembo 
come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato: 
vi comando queste parole. 
Scolpitele nel vostro cuore…

Chi ha ascoltato? Chi ha meditato? Chi ha recepito la veridicità del detto ciceroniano Historia magistra vitae?

 

Giuseppina Rando

 

 

* Primo Levi nasce nel 1919 da famiglia ebrea a Torino dove compie gli studi fino alla laurea in chimica. Nel 1938, in seguito alle leggi razziali, perde l’impiego di chimico e dopo l’8 settembre 1943 si aggrega alle formazioni partigiane in Val d’Aosta. Arrestato il 13 dicembre di quell’anno è inviato, per la sua condizione di ebreo, al campo di raccolta di Fossoli (Modena) e da qui, nel febbraio del 1944, viene deportato con altri 650 ebrei nel lager di Auschwitz, in Polonia. Salvato dalla camera a gas perché i tedeschi avevano bisogno di chimici, viene liberato nel gennaio del 1945 quando le truppe russe costringono al ritiro quelle tedesche. Tornato in Italia alla fine del 1945, narra la sua drammatica esperienza nei libri autobiografici Se questo è un uomo (1947) e La tregua (1963). Continua a lavorare nell’industria fino al 1975 e alterna il suo lavoro di chimico con quello di narratore pubblicando romanzi e raccolte tra cui Le storie naturali (pubblicate con lo pseudonimo di Damiano Malabaila), Il sistema periodico, La chiave a stella, I sommersi e i salvati. Muore suicida l’11 aprile 1987.


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