Il cinema di Asghar Farhadi racconta la società iraniana forte di un metodo che si consolida, dimostra la propria validità, di film in film.
Se una società non è una somma di parti, ma è un organismo, si può presumere di esaminare una porzione minima di quell'organismo, ritrovando in essa le leggi generali che governano l'organismo intero.
Insomma: Farhadi racconta episodi minimi, che non hanno però le dimensioni anguste di un aneddoto. Sono come sonde ben ponderate, proficue, nella mentalità e nei costumi di un intero paese.
Prendiamo ad esempio il suo ultimo film, Il cliente, che Farhadi è tornato a girare a Teheran, dopo un film di ambientazione francese; che ha vinto al festival di Cannes il premio per la migliore sceneggiatura e per la migliore interpretazione maschile.
Il pretesto che innesca il racconto è un equivoco foriero di drammatiche conseguenze.
Una coppia di giovani coniugi è costretta a trasferirsi in tutta fretta in un nuovo appartamento, senza il tempo di accertare chi fosse la precedente inquilina e senza neanche attendere che lei sgomberi i suoi arredi. Ora, si dà il caso che l'inquilina fosse una prostituta. E un giorno, mentre la moglie si trova sola in casa, e nuda sotto la doccia, si introduce nell'appartamento uno dei vecchi clienti della prostituta. La visita sfocia in un'aggressione. La donna ne resta intimamente, prima che fisicamente, segnata. Il marito, cadendo in preda a un'ossessione, altro non pensa che di andare alla caccia dell'aggressore.
Resta indefinito, per il “puritanesimo” che caratterizza le parole dei personaggi, se l'aggressione sia culminata in una vera e propria violenza sessuale. Del resto, nemmeno il mestiere della precedente inquilina è mai esplicitamente nominato. Fatto sta che la disavventura mette a nudo strati profondi della mentalità dei personaggi, e dell'uomo in particolare; in primo luogo, un maschilismo tradizionale, che contrasta con il suo comportamento di insegnante in una scuola – un comportamento “democratico”, o almeno non autoritario – e anche forse con la sua apertura alla cultura occidentale (lui e la moglie fanno parte di una compagnia teatrale che mette in scena Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller, subendo qualche noia dalla censura di Stato).
La ricerca del colpevole sembra ispirata alla difesa della moglie. La quale però è fatta sottilmente sentire colpevole della violenza che ha subito, senza che mai tuttavia l'accusa sia esplicitamente formulata. E il marito sembra percepire se stesso come la principale parte lesa dell'incidente, forse perché sono il suo onore e la sua proprietà – vale a dire la proprietà della moglie – a essere stati compromessi.
Va detto che la resa dei comportamenti, dei pensieri, delle emozioni dei personaggi, nell'ambito della coppia, ma anche a tra i vicini di casa, tra gli attori della compagnia teatrale, dà sempre un effetto di naturalezza, non si percepisce mai una forzatura dimostrativa. Ciò che rende tanto più persuasiva la denuncia che il film contiene tra le righe, e che può indurre lo spettatore italiano a rispecchiarsi nell'Iran così come è descritto, piuttosto che a a marcare la distanza tra sé e quel paese.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 7 gennaio 2017
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