Ma i viventi commettono
tutti l’errore di troppo forte distinguere.
Rilke
La parola poetica non accade una volta per tutte. Continua a manifestarsi. Giunge dal silenzio e cerca il dire in cui dimorare. Grazie a quella parola nel dire tornerà a rivelarsi l’iniziale essenza dell’essere umano nella sua pura naturalità.
Il tratto inaugurale della parola poetica dischiude lo spazio inconosciuto che eccede il significato, e lo apre a un cammino che sospinge l’esperienza di scrittura oltre se stessa, per seguire le volute e le inarcature di una voce nascosta. Scrive a questo proposito Bonnefoy: «La parola è un’attività sottostante al pensiero esplicito. Al suo libero costituirsi va data la priorità rispetto ai fasti dell’opera compiuta». Senza dispersioni, in questa “attività sottostante” è possibile cogliere quell’idea d’inafferrabilità che si distende nella linea del tempo; tanto da indurci a scrivere senza nominare. Come fa la danza quando danza; come fa il fiore quando fiorisce.
Si avverte come una sfida lo squarcio di un grido nel soffocamento generale. È il grido che il logos ha la funzione di far dimenticare, di mortificare.
Nell’attribuire a ogni cosa un nome, il logos ordina il chaos, ripartisce e categorizza l’essere. A partire da un oscuro sapere, accorda l’essere di classificazioni e lo riduce a sé.
I mortali distinguono e separano, aprendo un varco all’ingannevole apparenza della molteplicità. Resta la poesia a far uscire il conoscere umano dalla sfera delle illusioni; a nominare l’essere senza dividerlo.
L’essere umano è esiliato nell’apparire. Solo la poesia può far sì che nell’esilio non si smarrisca. Può farlo portandolo nell’immediatezza assoluta di una contemplazione senza conoscenza.
L’imperativo di Wittgenstein è esplicito: «Dobbiamo dissodare l’intero linguaggio». Ovvero dobbiamo essere consapevoli che il lavoro poetico non si svolge all’interno di un sistema di regole linguistiche, ma nel suo sporgersi là dove niente è più rassicurante: verso l’Aperto nominato da Hölderlin e da Rilke, verso il perturbante, l’imprevisto.
Dobbiamo abbandonarci all’essere. Farne parte di nuovo. Abbandonare le apparenze. Sostare a un passo dall’al di là. Abbandonarci a una vita rispettosa del mistero.
La parola che parla nella poesia non fa segno, non entra come moneta di scambio nel commercio quotidiano; non fa opera di senso. Non è la parola ineffabile che scende dall’azzurrità, ma quella che sale come fumo e fuoco dal vulcano. È una lingua di “laggiù”, ma è l’unica che può dire cosa accade “qui”.
La parola poetica si proferisce correttamente solo quando la si genera a partire dal silenzio, ovvero dal più assoluto distacco dal sé. Solo allora la parola viene generata non da noi stessi, ma dalla nostra essenza, quando si è quella parola. Il resto è pura ripetizione.
La parola non è il medico che corre in aiuto delle verità logorate dall’uso. È il dolore per la mancanza di un linguaggio adeguato a dire l’essere. Quel linguaggio che detiene il segreto del varco attraverso il quale l’animale viene strappato alla sua vita silenziosa e viene destinato alla caduta fuori di sé, nella figura del parlante.
In questa prospettiva si comprende che la poesia non è tanto un “genere” o una “categoria letteraria”, non è un mero ornamento dell’esserci e della sua finitudine, bensì una forma di vita che mette in relazione essere umano e mondo, soggetto e fondamento; una forma di vita che svela una natura probabilmente indefinibile, ma sulla quale non possiamo non riflettere.
La parola poetica è il modo in cui c’è l’essere umano.
La parola poetica ama le pure forme originarie, registra Schiller. Per farsi simile a esse, si frantuma, si diluisce, canta fuori da ogni norma prosodica, al limite del silenzio.
Questa parola è sconvolgente perché conserva il movimento lacerato dell’inaudito, proprio del mondo in ombra che si estende oltre i limiti della semplice ragione: quel mondo in cui i significati implodono in un angosciante spaesamento interiore e le cose non sono più assicurate a un terreno di certezze e di riferimenti stabilizzati. Non c’è codice di scrittura per tale visione; non c’è alfabeto, manca la grammatica.
Qui c’è il repentino recidersi di un continuum a causa di un limite senza protezione, dietro cui si nascondono le potenze dell’indifferenziato.
La parola poetica è determinata dal pericolo che essa affronta più che dal servizio alla vita. Il carattere della sua figura è del tutto astorico, e come tale annuncia un guardare senza io e un amare senza oggetto; annuncia ciò che crea durata senza misurazione. Delinea l’arcana esistenza che riposa in se stessa nel sottosuolo della storia, al principio della sua esperienza di vita, quando tutto è ancora originario: presenza pura, rivolta a ciò che semplicemente è, allo stato albale; un fruscio dell’anima e dell’apparire, insieme; uno sfiorarsi di un senso contro un altro, per un intrecciarsi prodigioso del grido con l’ammutolire.
Nel tumulto che sfida il principio di non contraddizione, le parole raggiungono il chaos che di quel tumulto è la causa più profonda. Sono parole che hanno in sé i segni di una condizione umana fragile e ferita; grumi di dolore e di opacità. Sono parole in cui mille varchi si aprono; in cui s’insinuano bagliori inconsueti, allucinazioni atte a sguarnire la frontiera che la ragione solitamente difende dalle notti in subbuglio.
Davanti a questo abisso che si spalanca d’improvviso là dove la vita sembrava proseguire piana, come si può ancora parlare di “genere letterario” per definire la poesia?
Flavio Ermini