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Virgilio Piñera. Progetto per un sogno (1944)
21 Dicembre 2016
 

Nel sogno ricordai che dovevo portare al mio compagno alcune lettere a lui dirette che aveva ricevuto al mio indirizzo. Erano quasi le sei di sera. Attraversando uno degli incroci che compongono la parte vecchia della città, mi imbattei in lui, che, da parte sua, stava cominciando il suo lungo tragitto fino al conservatorio di musica. Lo salutai, ma quasi non mi rispose. Camminava con un vigore incredibile; io lo seguii con grande fatica, e, come si può supporre, la pioggia ci bagnava abbastanza. Mentre correvamo, mi disse che prima doveva mangiare qualcosa. Gli indicai un luogo vicino, ma non mi fece caso e prese per una direzione opposta. Lo seguii con immenso sforzo. Per riuscire a trattenerlo, gli dissi che ero sicuro che le lettere erano di grandissima importanza. Mi rispose che per lui faceva lo stesso, che un giorno di questi le avrebbe lette. Ma io continuavo a insistere sull’importanza delle lettere, anche se da parte mia si trattava soltanto di un pretesto (non le lettere, quanto la loro importanza; in realtà erano pura pubblicità commerciale), perché tutto verteva sul fatto che io volevo intrattenerlo con un argomento qualsiasi, guadagnare la sua benevolenza, per fare in modo che mi pagasse il caffelatte con il pane tostato.

Facevamo i giri più incredibili; passavamo per strade che la pioggia rendeva quasi irriconoscibili. Credo che avevamo attraversato tutte le strade di quella parte della città vecchia quando cominciammo a introdurci nelle case: sia da una porta che da un muro, che da una finestra. Fu così che entrammo in una casa che aveva una galleria molto intricata: detta galleria si presentava come un soppalco e il suo pavimento era formato da piccoli pezzi mobili di legno, che dopo avremmo ricordato come quei ponti prensili che i selvaggi tendono tra due rive. Ma devo avvertire che la galleria era divisa proprio nel mezzo da un grande cancello di ferro. Pertanto, dal cancello verso il lato opposto, dove ci trovavamo nel momento di entrare nella casa, i piccoli pezzi mobili di legno erano per la maggior parte divelti dal loro alveo o divisi in diversi frammenti, cosa che rendeva molto difficile il passaggio. Una gran folla di bambini tra i cinque e i dieci anni si divertiva a saltare, uno dopo l’altro, sui pochi pezzi di legno che, come ho detto prima, restavano in quella seconda sezione della galleria.

Avevamo già terminato più di metà della prima sezione, quando confessai al mio compagno che tale galleria mi era familiare; ma lui non mi faceva per niente caso, perché già toccava con le sue dita le sbarre del gran cancello. Il cancello non aveva catenaccio e non cercammo di aprirlo, perché non ci sarebbe servito a niente: non ci aspettava, forse, la seconda sezione della galleria con altrettanti pezzi mobili di legno, tutti sconquassati, e anche le inevitabili burle e cattiverie di quella folla di marmocchi? Gettammo un rapido sguardo tra i buchi formati tra pezzo e pezzo e verificammo che in basso esisteva un’enorme cisterna o pozzo prosciugato del quale non si vedeva il fondo. (Ma non era il caso di sorprenderci, perché, o la vista possiede un limitato raggio d’azione, o queste cisterne possono essere incredibilmente profonde). Mi resi conto subito che tornare indietro non rientrava nei piani del mio compagno, e siccome io ero deciso a farmi pagare il caffelatte con il pane tostato, lo guardai con aria complice, per spingerlo a trovare un’uscita. Anzi, finivo io stesso per individuarla. Annessa alla galleria si vedeva un’altra galleria di uguali proporzioni della precedente, ma si differenziava da quella per il fatto che mancava completamente di pavimento, cioè, si poteva pensare che quello spazio fosse fatto per camminare, transitare, deambulare, andare e venire, ma in realtà non si poteva andare né venire e neppure deambulare, transitare o camminare. Presto dovetti constatare che l’architetto non aveva commesso un errore di costruzione, né si era permesso la sgradevole libertà di sprecare spazio; ma che la galleria era funzionale, proprio come il resto della casa.

Lo era, in effetti. Io avevo infilato la testa in uno degli occhi di bue praticati nella parete laterale sinistra della prima galleria (la parete laterale destra era formata da una pesantissima tenda di piombo impossibile da alzare o da scorrere) e potei osservare che a circa tre metri si vedeva uno sfavillante pavimento di marmo composto di mattonelle nere e gialle, che con ogni certezza deformavano il pavimento della seconda galleria. Io e il mio compagno facemmo passare i nostri corpi dagli occhi di bue (cioè, un occhio di bue per ogni corpo) e finimmo per trovarci in piedi sopra un piccolo bordo di tre pollici. Saltare sarebbe stato impossibile: tre metri sono più che sufficienti perché un qualsiasi essere umano cadendo sopra un pavimento duro – come con tutta certezza era quel marmo – si rompesse la colonna vertebrale o finisse in pezzi, rendendosene conto soltanto alcuni giorni dopo durante un ballo o mentre raccoglieva il fazzoletto di una dama. Ma dovemmo verificare che nello spazio tra il già citato bordo che ci serviva da sostegno e il pavimento di marmo composto di mattonelle nere e gialle si scorgevano come dei rudimentali gradini, che non avevano alcun carattere ornamentale. Almeno, ci sarebbero serviti, ci stavano già servendo per scendere verso il pavimento di marmo composto di mattonelle nere e gialle. Chiaro che la discesa era difficile per via della fastidiosissima posizione che il corpo doveva assumere, perché, la spalla, necessariamente, doveva appoggiarsi contro i gradini e si poteva fare pressione sopra gli stessi solo con i talloni; mentre le braccia, o si spingevano in avanti, o aderivano come ventose agli stessi gradini secondo le esigenze del particolare equilibrio della discesa.

Ma non potemmo vantarci dell’impresa compiuta. Proprio mentre mettevamo piede a terra, vedemmo che un uomo, piccolo come il nano più minuscolo del mondo, usciva dalla porta che si trovava al termine del pavimento di marmo composto di mattonelle nere e gialle. Procedeva sopra un paio di trampoli che avevano la stessa altezza della seconda galleria, ragion per cui poteva, senza alcuno sforzo, mettere il suo corpo in uno degli occhi di bue. Questo era ciò che faceva, per la precisione: introducendo il suo corpo per uno di quegli occhi di bue, catturò tre marmocchi e si diresse al centro del patio formato dal pavimento di marmo composto di mattonelle nere e gialle; con la zampa del trampolo destro fece azionare una molla che si trovava accanto a una specie di gabbia e subito si aprì una botola nella quale gettò un marmocchio, quindi fece lo stesso con gli altri due in altrettante gabbie che si trovavano accanto alla prima. Come si può supporre, cercammo di guardare all’interno delle gabbie, ma già il nano con la sua vocina, che giungeva sino a noi molto affievolita per via dell’altezza in cui si trovava, ci avvertì che non avremmo potuto vedere niente, perché il mimetismo di ogni persona (in ogni gabbia c’era un uomo) con il colore e la struttura della gabbia era così perfetto che nessuno, salvo fosse al corrente del segreto, avrebbe potuto immaginare che in quelle gabbie abitavano degli esseri umani. Quindi ci spiegò che per un prezzo modico si poteva vivere tutto il tempo che uno desiderava immedesimandosi in un animale prediletto. Così ci fece sapere che la sua attività procedeva con il vento in poppa; che aveva cominciato con due signori che volevano agire da orso e da pappagallo, e che in data odierna la scala zoologica era già coperta, se non totalmente, almeno nella sua quasi totalità. “Senza contare – ci disse – le ripetizioni; è curioso vedere come la specie più richiesta sia la tigre. Ci sono qui trecentomila gabbie di uomini che si comportano da tigre, a volte devo affumicarli, perché i loro ruggiti tormentano e terrorizzano uomini e donne che si comportano, per esempio, da cervo o volpe, da coniglio o agnello”. Non potei fare a meno di far rilevare il limitato spazio della galleria, ma lui sorrise e mi disse che l’edificio si stava ingrandendo secondo le necessità. “E qual è il suo prezzo? - gli gridai, perché l’altezza pretendeva che alzassi la voce, – qual è il suo prezzo?” E lui, a sua volta, mi rispose: “L’amore infinito per l’umanità”.

Ma non potei chiedere altro. In quel momento fece il suo ingresso un gran carrozzone pieno zeppo dei più svariati alimenti; erano confusi tra loro il miglio, i semi di canapa, l’erba di Guinea, il fieno, i frutti delle palme, che tanto piacciono ai maiali, il mais, delizia delle galline, e un immenso mazzo di fiori ripieni di nettare pronto per essere assaporato e trasformato in miele dalle api. L’ometto cominciò a distribuire questi alimenti e potemmo vedere come si aprivano innumerevoli gabbie che i nostri occhi non avrebbero mai sospettato dove fossero.

Approfittando che la porta era completamente aperta per far entrare il carrozzone, uscimmo in fretta e furia per finire in una sala dove sei neri emettevano un suono che non aveva fine, perché appena avevano terminato di eseguire la battuta finale, senza perdere un solo istante attaccavano la prima. Uno di loro ci fece sapere che non smettevano di suonare perché poteva darsi che qualche coppia di amanti, bramosa di ballare, entrasse nella sala e si rendesse conto con grande desolazione, con infinita tristezza, che l’orchestra aveva terminato il pezzo. Credevo che si stesse burlando di noi, ma guardando verso un angolo della sala vidi molte coppie in procinto di danzare. “Quelle non contano niente – mi disse –, sono totalmente sorde e non potranno ascoltare un solo suono neppure lontanamente. Ogni volta che arriva la parte del ritornello e i tamburi sprizzano scintille dal tanto suonare, loro, siccome non possono udirlo, accelerano il battito dei cuori, cosa che produce una lesione cardiaca che rapidamente li porta a morire”.

Ma non potemmo udire oltre le loro appassionanti dichiarazioni: in quel momento si apriva silenziosamente la porta della strada, o che supponevamo che desse sulla strada, e cercammo di raggiungerla, non prima senza aver atteso alcuni secondi con la speranza di veder apparire da quella porta gli amanti che sarebbero venuti a ballare. Contrariamente ai nostri calcoli, la porta non fece passare nessuno, e restava, invece, ostinatamente aperta, in modo tale che i suoi cardini cigolavano e minacciavano di saltare per la distensione delle sue lamine. Io e il mio compagno eravamo ancora titubanti, ma la circostanza di veder cadere come fulminate da un lampo tre di quelle incalcolabili coppie di uomini e donne sorde ci fece uscire a rompicollo. Il mio compagno, già per strada, mi fece contemplare la facciata dell’edificio, facendomi notare la sua vetustà. “Sembra – mi disse – del secolo XVIII…”, ma non aveva ancora finito di pronunciare queste parole che dovette rettificarle, perché ora sembrava un edificio costruito, al massimo, dieci anni prima. Il portiere (aveva un portiere) ci chiarì che l’edificio si andava facendo e rifacendo secondo il più arbitrario disegno, e che sempre stava e sarebbe stato in perpetua edificazione; che mai avrebbe adottato una forma definitiva o uno stile determinato.

Stavamo già per fare la sterile osservazione che molto probabilmente il portiere e il nano avrebbero potuto essere la stessa persona, e questo in ragione di certi assurdi parallelismi che verifichiamo per apprezzare un fatto che non ha niente a che vedere con un altro fatto la cui struttura ci induce a paragonarlo con il primo, quando la vista di una chiesa ci fece sospendere ogni argomentazione. Due donne che entravano in quel momento ci invitarono ad accompagnarle. Non c’era alcun altare e nel centro della navata si vedeva una specie di canale di alabastro lungo il quale scorreva un caffè nero e fumante. Il sacerdote invitava i visitatori a girare rapidamente intorno al canale; chi accettava era munito di una gran tazza di porcellana. Girando intorno al canale si immergeva la tazza nel caffè e si beveva senza perdere il ritmo della ronda, che era accompagnata allegramente dalla melodia di un tango argentino al tempo di gran moda.

Quel che segue appartiene all’ordine del fulmine, alla velocità della luce. Uscendo, il mio compagno scivolò e finì completamente sommerso in un acquitrino formato dalla pioggia che continuava a cadere in modo inclemente. Vedendosi immerso nel fango tentò di gettarci anche me, ma io, sostenendomi con tutte le mie forze a un palo dell’illuminazione, cominciai a lanciare grida d’aiuto. Allora accorsero due poliziotti vestiti di giallo le cui uniformi seguivano un modello rigorosamente medievale. Fummo condotti alla presenza della più alta autorità, questa impose al mio compagno la pena dell’espulsione immediata dalla città e l’esplicito divieto di farci ritorno prima che fossero passati trentatré anni. Allora io fui condotto in un guardaroba, proprio in quel luogo mi denudarono e mi fecero vestire con la giacca che aveva usato durante la commedia della sera precedente l’attore che così tanto amavo veder recitare. La più alta autorità mi pose lei stessa quella veste e mi ordinò di salutare gli amici. Io salutai tutti e passando davanti a uno specchio mi coprii il volto. Avevo appena abbandonato la strada che già il mio compagno si era avvicinato insieme a un cinese. Mi fece sapere che di ritorno dall’esilio, il suo unico pensiero sarebbe stato quello di assassinarmi per il mio rifiuto a immergermi in quel fango tentatore. Si gettò sopra di me mentre il cinese si preparava a pugnalarmi, ma alle mie grida accorsero i poliziotti, e condotti di nuovo davanti alla più alta autorità, lui fu nuovamente condannato all’esilio con proibizione assoluta di fare ritorno. Quando se lo portavano via ricordai in maniera molto chiara, con magnifica nitidezza, che il mio proposito era quello di seguirlo senza posa affinché mi pagasse il caffelatte con il pane tostato.

 

 

(Da: Virgilio Piñera, Cuentos fríos, 1944)

Traduzione di Gordiano Lupi


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