Secondo una celebre massima pronunciata in un suo film da un grande autore cinematografico francese, Jean Renoir, “su questa terra tutti hanno le loro ragioni”. È una massima di cui dovrebbe tenere conto anche ogni autore di cinema. Perché la capacità di cogliere le ragioni anche dei “cattivi” – quand'anche quelle ragioni ci appaiano sbagliate, o aberranti – dà la misura dell'intuito con cui un autore riesce a immedesimarsi in tutti i suoi personaggi, anche coloro che ritiene più diversi da sé.
Il film che il giovane regista canadese Xavier Dolan ha tratto da un dramma di Jean-Luc Lagarce e con cui ha vinto il Gran Premio della Giuria all'ultimo festival di Cannes – il film si intitola: È solo la fine del mondo – non presenta personaggi di una cattiveria efferata.
Descrive un gruppo di famiglia, i cui componenti sono afflitti – ognuno a suo modo, in diversa misura – da vizi caratteriali, come l'irascibilità, l'ottusità, la grettezza, la mancanza di sensibilità. Tutti insieme formano una piccola corte tumultuosa, litigiosissima, a volte nevrastenica. Potrebbero essere materia per una commedia tutta caricaturale. E invece capita tra loro un personaggio segnato da un destino tragico. Si tratta di un ragazzo, omosessuale, affetto da una malattia mortale, rimasto lontano per tanti anni dalla sua famiglia – nel frattempo ha fatto fortuna come scrittore – e che vi fa ritorno per annunciare la sua morte imminente e insomma per congedarsi per sempre da tutti loro.
A differenza dagli altri personaggi, egli è sensibile, misurato nei modi, premuroso quanto può. Sul suo viso, i segni del dolore si fanno via via sempre più evidenti, ma nessuno dei suoi familiare sa o vuole coglierli, ognuno chiuso nei suoi meschini rancori familiari, nei casi migliori capace soltanto di offrirgli un'ammirazione esaltata, o un affetto cieco, incomprensivo o che non trova un modo per manifestarsi. Tanto che il ragazzo finirà per rinunciare a trasmettere il suo messaggio tragico.
Chi conosce il cinema di Xavier Dolan sa che il narcisismo è, se non il suo limite, una sua caratteristica. I suoi film sono dominati da un personaggio centrale, spesso interpretato dallo stesso autore, le cui emozioni, i cui sentimenti, sono fatti rivivere allo spettatore; attorniato da personaggi tutti, o quasi tutti, ridotti a maschere, a clichés, a caricature deprivate di umanità.
È una struttura che in questo È solo la fine del mondo è esasperata, e dunque più evidente.
Il giovane morituro, la cui figura è segnata dai connotati della diversità, della solitudine e del dolore, ha un'aura nobile, da eroe romantico, che lo innalza tanto al di sopra dalla chiassosa congrega dei familiari, i quali, a ben guardare, sono trattati dall'autore con la stessa assoluta, aprioristica incomprensione che attribuisce loro nei confronti del protagonista.
Dovremmo concludere allora che il film di Dolan è povero di verità umana?
Forse sì. Eppure lo struggimento di chi in prossimità della morte cerca un conforto nelle persone che più dovrebbero essergli vicine – la madre, prima fra tutti – e non lo trova, si esprime nel film in momenti di eccezionale forza emotiva.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 10 dicembre 2016
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