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Gianfranco Cercone. “È solo la fine del mondo” di Xavier Dolan
12 Dicembre 2016
 

Secondo una celebre massima pronunciata in un suo film da un grande autore cinematografico francese, Jean Renoir, “su questa terra tutti hanno le loro ragioni”. È una massima di cui dovrebbe tenere conto anche ogni autore di cinema. Perché la capacità di cogliere le ragioni anche dei “cattivi” – quand'anche quelle ragioni ci appaiano sbagliate, o aberranti – dà la misura dell'intuito con cui un autore riesce a immedesimarsi in tutti i suoi personaggi, anche coloro che ritiene più diversi da sé.

Il film che il giovane regista canadese Xavier Dolan ha tratto da un dramma di Jean-Luc Lagarce e con cui ha vinto il Gran Premio della Giuria all'ultimo festival di Cannes – il film si intitola: È solo la fine del mondo – non presenta personaggi di una cattiveria efferata.

Descrive un gruppo di famiglia, i cui componenti sono afflitti – ognuno a suo modo, in diversa misura – da vizi caratteriali, come l'irascibilità, l'ottusità, la grettezza, la mancanza di sensibilità. Tutti insieme formano una piccola corte tumultuosa, litigiosissima, a volte nevrastenica. Potrebbero essere materia per una commedia tutta caricaturale. E invece capita tra loro un personaggio segnato da un destino tragico. Si tratta di un ragazzo, omosessuale, affetto da una malattia mortale, rimasto lontano per tanti anni dalla sua famiglia – nel frattempo ha fatto fortuna come scrittore – e che vi fa ritorno per annunciare la sua morte imminente e insomma per congedarsi per sempre da tutti loro.

A differenza dagli altri personaggi, egli è sensibile, misurato nei modi, premuroso quanto può. Sul suo viso, i segni del dolore si fanno via via sempre più evidenti, ma nessuno dei suoi familiare sa o vuole coglierli, ognuno chiuso nei suoi meschini rancori familiari, nei casi migliori capace soltanto di offrirgli un'ammirazione esaltata, o un affetto cieco, incomprensivo o che non trova un modo per manifestarsi. Tanto che il ragazzo finirà per rinunciare a trasmettere il suo messaggio tragico.

Chi conosce il cinema di Xavier Dolan sa che il narcisismo è, se non il suo limite, una sua caratteristica. I suoi film sono dominati da un personaggio centrale, spesso interpretato dallo stesso autore, le cui emozioni, i cui sentimenti, sono fatti rivivere allo spettatore; attorniato da personaggi tutti, o quasi tutti, ridotti a maschere, a clichés, a caricature deprivate di umanità.

È una struttura che in questo È solo la fine del mondo è esasperata, e dunque più evidente.

Il giovane morituro, la cui figura è segnata dai connotati della diversità, della solitudine e del dolore, ha un'aura nobile, da eroe romantico, che lo innalza tanto al di sopra dalla chiassosa congrega dei familiari, i quali, a ben guardare, sono trattati dall'autore con la stessa assoluta, aprioristica incomprensione che attribuisce loro nei confronti del protagonista.

Dovremmo concludere allora che il film di Dolan è povero di verità umana?

Forse sì. Eppure lo struggimento di chi in prossimità della morte cerca un conforto nelle persone che più dovrebbero essergli vicine – la madre, prima fra tutti – e non lo trova, si esprime nel film in momenti di eccezionale forza emotiva.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 10 dicembre 2016
»» QUI la scheda audio)


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