Nel XIX secolo nasce una nuova figura di poeta. Il suo dire ha la funzione di far apparire cose che si sono eclissate o addirittura non ci sono; e dunque di dare forma alla loro sparizione, e di segnalare l’assenza di ciò che non è più presente. Mallarmé giungerà a rivendicare l’idea che la creazione del verso sia resa possibile dall’omissione dell’autore nell’opera. Giungerà a indicarci che le virtù del verso sono tali da decretare come infondata la pretesa dell’indicibile di restare non-detto. Il poeta può riuscire, mediante il verso, a dire tutto, anche l’indicibile; anche la morte, la portatrice di ogni finitezza, la figura con la quale bisogna pur stringere qualche accordo per pensare il leopardiano limite, «che da tanta parte / dell’ultimo orizzonte il guardo esclude».
«La poesia non è la letteratura» decreta Bonnefoy. La letteratura fa uso ancora delle reti concettuali che regolano la lingua comune. E la poesia? La poesia «considera il rapporto a sé come l’unica realtà». È in questo modo che le viene garantita la possibilità di parlare dell’essere umano senza seppellirlo sotto formulazioni glaciali, reti concettuali che esprimono solo la materia, l’avere, invece di aver cura dell’essere.
Quando Baudelaire ci parla del sole e della sera ci parla dell’aspirazione a una realtà superiore. Ma: è possibile parlare di una realtà che abbia un’essenza più elevata senza far ricorso al divino? Sì, e Baudelaire ne dà prova tra contrasti e accordi di splendore e opacità. Smascherando le apparenze, dando la parola all’essere.
L’apparenza è ingannevole. Solo andando incontro all’essere, ci indica Baudelaire, è possibile riconoscere la «madre dei ricordi», né bella né malandata, né buona né cattiva, semplicemente, soggiunge Bonnefoy, «uno degli esseri reali con cui ci si deve alleare perché il mondo abbia un senso», qualunque esso sia.
Mai si è stati così lontani dall’appagante armonia della “letteratura”. Mai ci si è avvicinati all’incandescente vertigine della poesia, se non con Rimbaud quando registra: «J’écrivais des silences, des nuits, je notais l’inexprimable», incaricando il dire poetico di fissare il senso, ancora ignoto, del suo destino; di fissare in immagini i bagliori di una poesia non ancora distinta dall’avventura vissuta.
Né Rimbaud né Baudelaire distinguono tra sogno e vita, tra l’atto dell’ideale poetico – sempre comunque disgiunto dall’incanto della salvezza – e l’abisso della conoscenza.
Ciò che Bonnefoy ci fa rilevare è che comunque in questi poeti è sempre vivo il desiderio di rendere omaggio all’essere mortale, riconosciuto «come ciò che ha davvero valore». E questo “rendere omaggio”, si sa, nel secolo in cui declina il pensiero di Dio, non può che avvenire cercando di raggiungere una bellezza superiore grazie al lavoro sulle percezioni.
Come può avvenire? Riconoscendo nello spirito della lingua quel qualcosa che incessantemente continua a oltrepassare i limiti della disciplina e dell’ortodossia. Tale spirito non ha mai cessato un istante di soffiare – Dio o non Dio – sull’umanità. Lo ha ben capito Rimbaud quando esclama: «Andiamo allo Spirito! È cosa certissima, è oracolo, quello che dico, e, non potendo spiegarmi senza parole pagane, vorrei tacere!». Il poeta dovrà ricordarsi di questo «Spirito», privilegiando certe sillabe, certe soluzioni ritmiche e metriche se vorrà raggiungere un equilibrio tra conscio e vertigine e, attraverso di esso, la rivelazione. A questo proposito, nel primo dei suoi Sonetti a Orfeo Rilke potrà scrivere: «E tutto tacque. Eppure in quel tacere / s’avanzò nuovo inizio».
Flavio Ermini, La poesia? Un mistero in piena luce,
nell’enigma dell’evidenza
Postfazione a: Yves Bonnefoy, Il secolo di Baudelaire
nella traduzione di Anna Chiara Peduzzi (Moretti&Vitali, 2016)
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