Nel XIX secolo nasce la poesia della modernità e Yves Bonnefoy ne traccia in questo libro il profilo. Lo delinea dialogando con i testi poetici di alcuni tra gli autori più significativi dell’Ottocento: da Poe a Baudelaire, da Mallarmé a Rimbaud, da Laforgue a Valéry, fino a Hofmannsthal.
Diciamo subito che il tratto caratteristico di questo profilo è la questione della persistenza del divino nella parola poetica e tra gli esseri umani. È una questione che tutti questi poeti si pongono, pur rassegnandosi all’idea che nessuna credenza religiosa possa convivere con la finitezza.
Ma procediamo con ordine. La «morte di Dio» era già stata decretata nel secolo precedente; ma allora, come osserva Bonnefoy, «il declino del pensiero di Dio andava di pari passo con un uso sempre più decisamente retorico della parola», dando vita a una letteratura appagata, piena di sé. Una letteratura che, proprio per questo, avrà una forte responsabilità nell’aprire le porte – in modo precipitoso e in qualche modo acritico – a una società dedita alla produzione e al consumo di oggetti ormai ridotti a pura materia, senza più relazioni con l’essenza della vita.
La grande innovazione di Baudelaire e dei poeti ai quali è dedicata questa opera consiste nell’aver compreso che la scomparsa del divino dai significati e dalle figure della struttura linguistica non può determinare che vada anche perduto il senso della trascendenza. Ecco perché nei loro testi mantengono vivi entrambi questi aspetti conferendo alla poesia una funzione completamente nuova, assolutamente inedita.
Non sottrarsi a questo conflitto interiore, ci dicono, significa scoprire la vera natura del trascendente: una natura in grado di connettere l’infinitezza all’esistenza ordinaria. Tanto che Bonnefoy potrà dichiarare: «Solo quando l’elemento religioso vacillò, divenne possibile distinguere il poetico nella sua differenza, e la poesia nel suo essere specifico».
Questa possibilità, va detto, Baudelaire l’ha indagata e praticata fino alle estreme conseguenze, tanto da condannarsi, oltre che all’infelicità, anche all’incomprensione dei suoi contemporanei, perlopiù prigionieri della morale vigente.
Diciamolo: ci sono poeti la cui voce si fa attendere a lungo. Proprio come quelle stelle la cui luce ci raggiunge molto tempo dopo che si sono spente. La loro capacità di creazione, svincolata da ogni necessità utilitaristica della comunicazione, pare che non riesca a fare presa sulla sensibilità dei propri contemporanei. Ci sono poeti che sembrano vivere in esilio, in una terra di nessuno (tra individuo e società) e sospesi tra due mondi, in bilico tra il loro linguaggio e la loro stessa esistenza. E mentre dentro di loro infuria questa guerra, il mondo, fuori, non li degna di uno sguardo.
Diciamolo ancora più chiaramente: il compito al quale Baudelaire non si sottrae – e, come lui, Mallarmé e Rimbaud; e, prima di lui, Poe; e, dopo di lui, Hofmannsthal – è di percepire nelle più semplici parole della quotidianità un residuo dell’originaria a-temporalità, dell’infanzia del mondo, quando l’invisibile era ancora visibile e si rivelava per schegge luminose, che accecavano gli occhi e ferivano le mani.
La parola torna poesia, insomma, grazie al dovere supremo che l’essere parlante, fattosi poeta, assume su di sé. Senza sottrarsi alle contraddizioni e alle aporie del linguaggio.
«Quant’è difficile» esclama Bonnefoy «condurre questa battaglia!». E non si può non concordare con lui osservando come nel XX secolo la poesia dell’Ottocento non abbia avuto molti eredi, avendo preferito strade meno ardue, più familiari. L’invito è chiaro: torniamo a fare attenzione a ciò che hanno scritto autori come Rimbaud e Valéry. «È in gioco la poesia» avverte lo stesso Bonnefoy.
Nel dire poetico si abita solo il luogo che si abbandona: l’infinitezza. Nel dire poetico si crea solo la forma di vita da cui ci si distacca: l’Io. Si ottiene la durata solo distruggendo il tempo: avanzare verso l’a-temporalità dell’origine.
La poesia non cerca significazioni, ma senso, «il senso che c’è a vivere», ci assicura Bonnefoy, per soggiungere subito: «Ed è per questo che la società ha sempre, e oggi soprattutto, un gran bisogno di poesia».
Su questo tratto si misura Baudelaire: con la sua intransigenza, il suo carattere intatto, la sua socievolezza perfettibile. È così anche per Rimbaud quando esclama: alle ortiche rima, metrica, cesure, leziose parole “poetiche”; al diavolo la grammatica stessa e – perché no? – anche la logica!
Flavio Ermini, La poesia? Un mistero in piena luce,
nell’enigma dell’evidenza
Postfazione a: Yves Bonnefoy, Il secolo di Baudelaire
nella traduzione di Anna Chiara Peduzzi (Moretti&Vitali, 2016)
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