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Gianfranco Cercone. “Fai bei sogni” di Marco Bellocchio
19 Novembre 2016
 

Una delle note ricorrenti – forse la più ricorrente – del cinema di Bellocchio, è la rabbia – una rabbia che ha anche punte di isteria – contro tutto ciò che impedisce il libero sviluppo della vita, che si tratti del conformismo sociale, del perbenismo familiare, o del cattolicesimo più retrivo.

È una nota che si ritrova anche nel suo ultimo film – che, lo anticipo subito, è secondo me molto bello – intitolato Fai bei sogni, liberamente tratto dal romanzo omonimo di Massimo Gramellini.

La rabbia in questo caso è quella di un bambino, rimasto orfano di sua madre, ed è rivolta, sembra di capire, contro il destino che lo ha privato del suo affetto più caro; contro il padre e i parenti, che gli raccontano di quella morte, seppure ipocritamente, senza rivelargli come è davvero avvenuta; contro un prete, che gli prospetta la vita oltremondana della madre, mentre il bambino spera, contro ogni evidenza, nella sua vita terrena; e infine contro la madre stessa, quando, ormai in età adulta, siamo quasi al termine del film, finalmente comprende ciò che a noi spettatori era stato dato intuire da subito e che egli evidentemente si ostinava a non capire: che cioè la madre lo aveva abbandonato deliberatamente, suicidandosi.

In questo caso – come si vede – è forse questa la novità del film rispetto alla precedente filmografia di Bellocchio – la rabbia non è alleata all'istinto vitale, ma a una fantasia di regressione.

È in fondo la rabbia di chi, nel profondo di sé, è rimasto fissato a un sogno di felicità infantile: l'unione mitica, affettuosa e giocosa con la madre, e rifiuta chi vorrebbe distoglierlo da quel sogno, fosse anche la madre reale stessa.

Così se è vero che il protagonista diventa un giornalista di successo, che sposa il cinismo che è a volte della sua professione, che viaggia e incontra personaggi illustri, è anche vero che i casi, le persone che assorbono la sua autentica attenzione (mentre il resto è come avvolto nella nebbia) sono quelli che gli ricordano il suo idillio e la sua tragedia infantile. Come ad esempio, da inviato nella ex-Jugoslavia, durante la guerra degli anni Novanta, la figura di un bambino, con gli occhi fissi su un videogioco, come per negare a se stesso la presenza del cadavere della madre uccisa, poco distante da lui.

E se l'uomo ha storie d'amore con altre donne, è anche vero che quelle donne le trascura, salvo una forse: quella che per la sua fisionomia e per la cura che si prende di lui (si tratta infatti di un medico) più gli ricorda la madre.

Il film presenta una splendida galleria di personaggi secondari: da un grande imprenditore che si suicida a un prete vecchio e saggio, a una coppia formata da una madre e da un figlio uniti dall'odio reciproco: figure che compaiono a volte sullo schermo soltanto per qualche attimo, ma tutte incisive, che non risultano mai decorative rispetto al filo del racconto, perché profondamente collegate al dramma intimo del personaggio principale.

È, io credo, il più impolitico dei film di Bellocchio. È bello per il sentimento forte, vero, di malinconia disperata, che lo permea per intero.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 19 novembre 2016
»» QUI la scheda audio)


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