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“La ragazza del treno” di Tate Taylor
12 Novembre 2016
 

Una tentazione ricorrente nei registi e negli sceneggiatori cinematografici è quella di fare dei loro film, il veicolo di un messaggio. Dico: tentazione, come la tendenza a un comportamento inappropriato, perché se è vero che da ogni film, da ogni racconto, si può anche desumere una morale – magari complessa, contraddittoria e inconscia anche all'autore – è anche vero che quando una morale diventa l'obiettivo del film e tutto il racconto è costruito in sua funzione, quel racconto di solito si schematizza, si impoverisce.

Prendiamo il caso del film La ragazza del treno, tratto dal romanzo best seller di Paula Hawkins e diretto dal regista Tate Taylor.

Si racconta di una ragazza, quella del titolo, sola, disoccupata, alcoolizzata, che, passando ogni giorno con il treno davanti al villino dove abita una donna che convive con un uomo e che è, almeno in apparenza, serena e normale, la osserva con ammirazione, forse con invidia. Allo stesso tempo, perseguita con visite ossessive, il suo ex-marito che adesso convive con un'altra donna, dalla quale ha avuto un figlio.

Si capisce presto che sulla “ragazza del treno” pesa il pregiudizio sociale contro chi è solo, fuori dagli schemi; un pregiudizio forse tuttora più acuto nei riguardi delle donne, almeno da parte di chi le vorrebbe sposate e magari con figli.

Fatto sta che quando accade un omicidio, la cui vittima è proprio quella donna che la ragazza tanto ansiosamente spiava, i sospetti della polizia si appuntano su di lei.

Come si sarà intuito La ragazza del treno è un film che appartiene al genere thriller, la cui suspense è anche alimentata, come accade nei gialli, dalla domanda: “Chi ha ucciso la donna?”, con la variante che a porsi con trepidazione quella domanda è anche la principale sospettata, perché le amnesie che le provoca l'alcoolismo la rendono incerta lei stessa delle azione che può aver commesso.

Ma il vero tema del racconto, si scoprirà poi, non è l'alcoolismo, ma sono gli abusi domestici, le violenze che le donne in casa possono subire dai loro uomini, e delle quali, in casi particolari come quello della protagonista del film, possono sentirsi loro stesse colpevoli, per un'antica lesione della loro psiche, per un complesso di inferiorità che le violenze rafforzano.

Così la scoperta del vero colpevole da parte della ragazza, significherà, in questo caso, la presa di coscienza di non essere lei colpevole, ma che colpevole era l'uomo che l'aveva picchiata e umiliata.

E l'esortazione – il messaggio, appunto – che, a ben guardare, è il vero nucleo del film, è rivolto alle donne che a causa delle violenze subite siano cadute in una spirale autodistruttiva simile a quella della protagonista, perché “riprendano in mano” la propria vita.

Va detto che il film evoca con suggestione l'atmosfera di smarrimento, quasi onirica, in cui può cadere chi abbia perso il senso della realtà.

Per contro, come accade a film così didascalici (sia pure didascalici per un buon fine), i personaggi sono ridotti a pochi tratti elementari: la depressione e il disorientamento per quanto riguarda la protagonista (interpretata molto bene da Emily Blunt), la doppiezza per l'ex-marito, la brutalità per il fidanzato della ragazza uccisa.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 5 novembre 2016
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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