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Gianfranco Cercone. “La ragazza senza nome” di Jean-Pierre e Luc Dardenne
07 Novembre 2016
 

I film di quei due grandi autori belgi che sono i fratelli Dardenne – Jean-Pierre e Luc Dardenne – come sa chi da molti anni frequenta e magari ammira il loro cinema, sono spogli, aderenti alla vita quotidiana, senza vistosi ingredienti spettacolari; costellano “temi sociali”, come l'immigrazione, lo sfruttamento del lavoro, varie forme di emarginazione e di diversità. E tuttavia non si riducono a una denuncia elementare. I loro personaggi, di solito, hanno un alto grado di complessità e di ambiguità. E se a un occhio distratto possono apparire grezzi, in effetti sono intagliati nei costumi, nei gesti, nei singoli sguardi, con la cura di un orafo.

Il loro ultimo film, La ragazza senza nome, sembra affrontare il tema dell'immigrazione; o meglio ancora, dell'indifferenza, quasi automatica, inconsapevole di sé, con cui si guarda a volte ai drammi degli altri; e in particolare, con cui a volte i privilegiati europei guardano alle sciagure dei popoli più poveri, più oppressi.

L'ipotesi da cui prende avvio il racconto ha un evidente valore simbolico.

Si racconta di una giovane dottoressa che, al termine delle visite nel suo ambulatorio, un'ora dopo l'orario di chiusura al pubblico, riceve una chiamata al citofono. Si rifiuta di aprire il portone. Apprende in seguito che a bussare era stata una ragazza, un'immigrata da un paese africano, alla ricerca di un soccorso, essendo evidentemente inseguita; che è stata ritrovata morta al margine di una strada.

La dottoressa certo non può essere ritenuta responsabile della sua morte. È molto probabile però che se le avesse aperto, la ragazza si sarebbe salvata.

Così, pur non avendo infranto la legge, avendo rispettato le regole della sua professione, il senso di colpa in lei è tale, da imporle di modificare i suoi atteggiamenti e anche le sue scelte professionali.

Se prima, ad esempio, nei confronti di uno stagista, era severa, quasi sprezzante, adesso lo riavvicina con maggiore senso di comprensione, con indulgenza; se aveva pensato di lavorare in un più redditizio studio privato, sceglie invece di continuare ad operare nella sanità pubblica. E soprattutto si adopera, attraverso un'indagine personale, per scoprire il nome della vittima, perché almeno non abbia una sepoltura anonima.

Su questa svolta virtuosa della sua esistenza, grava in effetti un'ombra di ambiguità: perché questa giovane dottoressa, tanto rigorosa nel lavoro, e tanto solitaria nella vita privata, sembra irretita dalla ragazza morta, con un coinvolgimento quasi amoroso. Tanto che per scoprire il suo nome, non soltanto sfiora pericolosamente il giro di delinquenza e di prostituzione cui la ragazza apparteneva, ma è disposta a esercitare sui suoi pazienti forme di prepotenza e quasi di ricatto.

Ma è un'ambiguità che sfiora appena il disegno del personaggio, che si rivela sempre più una figura edificante: destinata cioè a dimostrare ciò che, secondo gli autori, dovrebbe fare chi fosse incorso in una colpa morale simile a quella da lei commessa.

Così, se i personaggi secondari del racconto sono descritti con il senso di verità abituale al cinema dei Dardenne, la protagonista, malgrado la bravura di Adèle Haenel, l'attrice che la interpreta, incorre nei difetti, di semplificazione e di irrealtà, che sono tipici dell'arte quando non vuole rappresentare la realtà così com'è, ma come dovrebbe essere.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 5 novembre 2016
»» QUI la scheda audio)


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