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Gianfranco Cercone. “Io, Daniel Blake” di Ken Loach
29 Ottobre 2016
 

I film di Ken Loach nascondono più di un tranello a chi voglia tentare di formulare un giudizio obiettivo su di loro. Dotati di un racconto coinvolgente, di attori impeccabili, sono immancabilmente film a tesi. E la tesi è un'accusa contro chi detiene in Inghilterra, a vario titolo, il potere e/o la ricchezza.

Quali sono allora i tranelli a cui accennavo?

L'insofferenza, o al contrario la simpatia, per le tesi dei suoi film, possono offuscare ciò che di bello o di brutto contengono. E poi: la capacità di costruire un racconto che cattura, anche profondamente, la nostra attenzione, è una prova inequivocabile di riuscita artistica?

Consideriamo il caso del suo ultimo film: Io, Daniel Blake, che ha vinto la Palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes.

Si raccontano le vicissitudini di un falegname che, giunto alla soglia dei sessant'anni, colpito da infarto, è sconsigliato dai medici di riprendere il suo lavoro.

Lo Stato, tuttavia, vuoi per l'incompetenza dei suoi periti, vuoi per risparmiare a spese dei lavoratori, non gli riconosce l'indennità per malattia a cui, con ogni evidenza, avrebbe diritto. E il brav'uomo, comunque bersagliato dalle tasse, per non finire sul lastrico, è costretto a richiedere un sussidio di disoccupazione.

E non sarebbe forse una scelta tanto grave se quel sussidio, per le leggi inglesi, a quanto apprendiamo, non fosse vincolato alla ricerca effettiva, da comprovare, di un nuovo lavoro: un lavoro che, per le sue condizioni di salute, l'uomo non potrebbe comunque svolgere.

Insomma: per l'inefficienza dello Stato, per certe assurdità delle sue regole, l'uomo, che prima di ammalarsi era un onesto lavoratore, si trova ridotto alle condizioni economiche di un miserabile, costretto a truffare lo Stato.

E che il suo non sia un caso isolato, lo comprova la vicenda parallela di una ragazza, che alleva da sola due figli piccoli, che agli uffici pubblici si rivolge ma che è lasciata senza assistenza al punto da essere ridotta alla fame.

Ora: quanto il quadro del welfare inglese che offre il film sia veritiero, non può certo stabilirlo il critico cinematografico. Certo, delle procedure da seguire per ottenere un sussidio, come per fare un ricorso, così come dell'organizzazione degli uffici pubblici, il film offre una descrizione così puntuale da apparire documentata, verosimile.

E poi, ciò che da un punto di vista artistico più importa, l'evoluzione degli stati d'animo dell'uomo – dotato di buona tempra, combattivo, ma sempre senza asprezza – e che tuttavia precipita, come dice lui stesso, nella “mancanza di rispetto per se stesso”, nello sconforto, nell'inerzia – è un'evoluzione resa per gradazioni, con delicatezza, con senso di verità, grazie anche alla bravura dell'attore che lo interpreta, Dave Johns.

Ciò riconosciuto, viene però da chiedersi: è verosimile che i diseredati, gli sfruttati, i miserabile, siano sempre dotati, come accade nel film, di buoni sentimenti e siano sempre solidali fra loro? Mentre coloro che gravitano nell'orbita del potere, anche con le mansioni più umili, siano, con rare eccezioni, insensibili, ottusi e malvagi?

E senza per nulla sottovalutare la drammaticità di problemi come la miseria e la fame, è accettabile che i problemi vivi dei personaggi siano tutti inerenti alla sfera economica, mentre quando si viene, per esempio, ai loro rapporti sentimentali risultano generici e convenzionali? Non è questa una semplificazione della loro umanità?

Insomma: la tesi del film, l'ideologia che lo impronta, impoverisce e rende a volte artefatto il racconto, nonostante le sue notevoli qualità artistiche.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 29 ottobre 2016
»» QUI la scheda audio)


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