Quando ci si occupa di letteratura locale, molte volte si corre il rischio di non dire più di tanto o peggio ancora, di ripetere cose già dette da altri. Il motivo di tutto questo è da rintracciare, nella scarsa e (quasi) inesistente bibliografia saggistica monografica, sugli scrittori locali. In queste mie parole non voglio fare un discorso generale, che sarebbe troppo lungo e pesante, ma voglio concentrarmi su due grandi scrittori marchigiani, che, sono ormai diventati dei fantasmi letterari.
Il primo scrittore di cui mi occuperò, è la grande poetessa di fama locale e nazionale, Anna Malfaiera (Fabriano, 26 luglio 1926 – Roma, 1996). Vent'anni sono passati dalla sua morte, eppure ancora oggi, non è stato pubblicato nessun saggio critico-monografico su di lei; e le uniche informazioni riguardanti la sua poetica, sono rintracciabili nelle antologie di scrittori marchigiani, curate rispettivamente da Carlo Antognini (Scrittori marchigiani del Novecento), e Guido Garufi (Poeti delle Marche). Non c'è mai fine però al peggio, come dimostra il trattamento riservato alle sue poche e rare opere, presenti all'interno del sistema bibliotecari anconetano. Opere che sono solo ed unicamente disponibili per la consultazione interna, come se le sue raccolte poetiche fossero proibite o di cattivo esempio poetico, per le nuove generazioni di scrittori e poeti italiani. Inoltre, dulcis in fundo, c'è da dire e aggiungere che neanche l'Amministrazione comunale di Fabriano è in grado di promuovere studi di valore sulla sua concittadina più famosa.
Poesia, quella della Malfaiera che fotografa la vita degli uomini, dentro città industriali all'interno di nefandi fabbricati cittadini, con i loro muri e le loro strade, che piangono ansia. La vita degli uomini è vista, solo ed unicamente, come una ragnatela dolorosa, una sofferta sconfitta quotidiana. La pesantezza della vita umana trasformerà la sua poesia in qualcosa di personale, portando la Malfaiera ad una lontana investigazione di sé, e produrrà nelle sue liriche delle ombre umane incomplete. Liriche composte con parole, che hanno lo scopo di conservare ed estrinsecare contesti e momenti, i quali vengono “svuotati” e “distrutti” emotivamente; e che hanno il compito di togliere e amputare le canoniche licenze poetiche. Poetessa rivoluzionaria fu definita, poiché essa stessa per le sue liriche si inventò il ritmo, fatto di infinite e allungate sequenze sintattico-frasali; e che costituiscono la base della sua poesia, definita da molti, come “pietrosa” e brumosa.
La poetessa fabrianese, non è l’unica ad essere scordata bibliograficamente, bibliotecarmente, e comunalmente, poiché anche il grande scrittore e poeta Luigi Di Ruscio (Fermo, 27 gennaio 1930 – Oslo, 23 febbraio 2011) condivide il suo medesimo destino. Anche per lui, le sue rare e poche opere presenti nel Sistema Bibliotecario anconetano sono imprestabili o peggio ancora dismesse e andate perse. La poesia del Di Ruscio può essere divisa in tre fasi ben separate fra di esse. Nella prima fase poetica assistiamo a una lirica fissa e nomade. In questa prima fase, le poesie del Di Ruscio sono colme di ombre e immagini della quotidiana, rappresentata quest’ultima dal poeta fermano, come un universo colmo di mendicità e inopia, di umiliazioni e rivoluzioni. Quotidianità che porterà Luigi Di Ruscio lontano dall’Italia e, più precisamente, nella città norvegese di Oslo. Accanto alle liriche della quotidianità, trovano spazio liriche sociali ed etico-esistenziali, che vogliono dare un viso all’Uomo, da esso ricercato fin dall’Alba dei Tempi. Stile reminiscenziale e vergineo che vuole creare liriche passionali e “cinematografiche”. In questa prima fase vengono evocati ricordi biografici legati alla sua città di origine, attraverso lo studio e l’investigazione sull’esistenza demoniaca dei fermani, fotografata nelle strade cittadine tra cattiveria e gioia. In queste liriche fermane, la natura e la letteratura si fondono perfettamente fra di esse. Liriche che rappresentano ombre umane, sempre in lotta fra di loro, solo ed unicamente per la sopravvivenza sociale dell'una sull'altra.
La seconda fase della poesia del Di Ruscio è interamente neorealistica, grazie a liriche che rappresentano l'universo dell'industria e la figura dell'operaio. In questa seconda fase, il poeta fermano utilizza un linguaggio verbale intensamente reiterato ed esacerbato, con il principale scopo di allontanarsi dalla poesia reminiscenziale e così avvicinarsi alla poesia didascalico-pedagogica. Nella terza e ultima fase di Luigi Di Ruscio si assiste ad un ritorno alla metrica e temporalità poetica delle origini che contraddistinse la prima fase poetica del poeta fermano.