Aleppo, due anime in una stessa città. Le testimonianze di chi ha scelto di non scappare, ma di continuare a vivere lì nonostante la guerra
Cessate il fuoco sempre più di facciata, convogli umanitari bersagliati, ospedali nel mirino dei bombardamenti. Negli ultimi mesi la situazione ad Aleppo è diventata tragica dal punto di vista umanitario e surreale da quello politico e diplomatico, con l’ultimo veto russo arrivato lo scorso 8 ottobre su una proposta francese per lo stop ai voli dei jet militari sopra la città.
Il mondo vede, ma non vuole prendere decisioni efficaci per fermare le violenze. Ostaggi di questo stallo internazionale migliaia di civili che resistono sia nella zona est della città, quella “liberata”, dove gli insorti hanno sconfitto il regime e l’Isis, sia nella zona ovest, dove le autorità di Damasco hanno il pieno controllo.
E così oggi in una parte della città manca il pane, nell’altra le attività commerciali funzionano ancora e ci sono persino ristoranti aperti. Attraverso Skype, TPI ha contattato due famiglie che abitano agli antipodi della stessa città, per farci raccontare cosa significa vivere oggi in un'Aleppo dalle due anime.
Aleppo est
Jamila (nome di fantasia) vive nel quartiere al-Sukkari, pesantemente preso di mira dai barili bomba e dai jet di Mosca. Era una parrucchiera e gestiva due negozi, entrambi rasi al suolo dai bombardamenti. È rimasta senza lavoro e oggi opera come volontaria per una Ong che distribuisce aiuti umanitari.
«La mia famiglia vive nel quartiere di al-Jadida, nella zona ovest», racconta. «Io e mio marito non li vediamo da due anni. Attraversare la città è diventato difficile e pericoloso da quando sono cominciate le violenze, ma dall’inizio dell’assedio è del tutto impossibile muoversi. I forni del nostro quartiere sono stati quasi tutti distrutti e manca la farina. Se qualcuno si ammala, possiamo rivolgerci solo agli ospedali da campo, ma sono tutti al collasso ormai».
Nei giorni scorsi le autorità di Damasco e i loro alleati russi hanno annunciato un cessate il fuoco, durato poco più di due giorni. Secondo Jamila si è trattato «solo di un espediente, un modo per consentire all’esercito russo di rifornirsi di armi e ricomporre le fila. Eppure in quei giorni ci siamo sentiti liberi. Siamo scesi in strada con la nostra bandiera (la bandiera dell'opposizione, ndr) e abbiamo cantato tutti insieme, donne, bambini e uomini, scandendo slogan contro il regime e facendo appello per una Siria di tutti i siriani. Sono passate poche ore, poi, come ci aspettavamo, sono ripresi i bombardamenti. Abbiamo ricominciato a contare i morti e a scrutare il cielo per capire da quale parte arriveranno gli ordigni che ci uccideranno».
«Aleppo oggi è come Homs, Darayya e Deir Ezzor, le città dove è iniziata la protesta antigovernativa nel 2011, che all’epoca ci rimproveravano per la nostra apparente inerzia», continua Jamila. «Sono diventate città fantasma e si sta facendo di tutto per mandare via gli ultimi abitanti che ancora resistono nelle loro case. Nessuno avrebbe immaginato quanto sarebbe stato caro il prezzo da pagare per le nostre scelte, per aver detto basta a un regime che ci opprime da cinquant’anni. Sta morendo il fiore della nostra gioventù, i nostri figli non sanno cosa sia la vita in pace».
Oggi i droni delle emittenti internazionali sorvolano la zona est di Aleppo, mostrando al mondo infinite distese di macerie. Quartieri irriconoscibili, palazzi e monumenti mortificati dalle bombe, cupole di moschee sventrate, campanili e minareti squarciati.
Dal basso, strada per strada, quartiere per quartiere, gli attivisti e citizen reporter raccontano il dramma dei civili, le esplosioni, l’intervento dei soccorritori, la situazione allo stremo negli ospedali da campo, le interminabili file ai panifici e le sepolture di massa.
La città sembra piombata in un incubo senza fine, che si protrae da oltre cinque anni. Nessuno riconoscerebbe in quelle immagini gli splendori di Aleppo, un tempo cuore culturale ed economico della Siria.
Aleppo ovest
Cambiando zona e cambiando interlocutori, lo scenario muta notevolmente. Nella parte ovest della città ci sono diversi quartieri praticamente intatti. Qui il regime non ha sganciato i suoi barili bomba, non c’è l’assedio e si vive un’esistenza quasi surreale. I media di stato ritraggono questa apparente tranquillità come il segno della forza e della solidità del regime.
«In questa parte della città gli unici danni sono stati causati dai colpi di artiglieria dei ribelli», racconta Akram (altro nome di fantasia), un imprenditore edile che è rimasto l'unico della sua famiglia a essere rimasto a vivere nel quartiere.
«Ho preferito far partire la mia famiglia per Parigi perché avevo paura dei sequestri. Ho saputo di molte ragazze rapite e restituite alle famiglie solo dopo il pagamento di un ingente riscatto. Alcune hanno subito violenze. Non potevo mettere a rischio le mie figlie».
Akram non risponde quando gli chiedo chi c’è dietro i sequestri, ma sussurra vagamente «certa gente». Forse ha paura che la conversazione possa essere intercettata.
«Il quartiere esteriormente non è molto cambiato da com'era sei anni fa. Ci sono solo diversi negozi chiusi, famiglie partite e mai tornate, ma per il resto tutto è come prima. Quando vedo su Internet le immagini del resto della città fatico a credere che quella sia davvero Aleppo. Non riesco a gioire che qui da noi vada tutto bene. Non va bene niente. Vorremmo andare ad aiutare i nostri amici e familiari nei quartieri assediati, portare loro cibo e medicine. Da siriano mi vergogno quando vedo le immagini dei miei concittadini in fuga, affamati, stremati, finiti a vivere nelle tendopoli».
Akram afferma che alla maggior parte della gente interessa solo che la Siria si salvi. «Non mi importa nulla della politica, sono un imprenditore e ho lavorato una vita per costruire il mio business. Non posso partire e lasciare che chissà chi si prenda le nostre ricchezze, il nostro quartiere, la nostra città».
Conclude maledicendo «chi ha causato tutto questo», senza esporsi contro una parte o contro l’altra.
Alla divisione fisica della città non corrisponde una divisione in vincitori e vinti. Tutti i siriani stanno perdendo. Vivere nella zona ovest non significa necessariamente essere muayed (sostenitore del regime) e vivere nella zona est non significa essere muared (oppositore).
Gli abitanti di Aleppo si sentono in lutto per la situazione generale della città, che forse col tempo potrà essere ricostruita, ma che difficilmente ritroverà la coesione e la fierezza di un tempo. Oggi Aleppo piange i suoi morti e prende dolorosamente atto del fallimento della diplomazia internazionale, incapace di accordarsi per salvare civili inermi.
Asmae Dachan
(da The Post Internazionale, 25 ottobre 2016)