Davanti al Signore un giorno
è come mille anni
Come un giorno solo.
2 Pietro 3,8
Il poeta latino Ovidio lo definiva edax rerum, cioè un vorace consumatore delle cose: certo è che il tempo è la dimensione che più aderisce alla nostra realtà di creature finite, limitate, caduche. È quasi la definizione del nostro essere mortali, come canta il Salmista che compara i giorni dell’uomo all’erba o al fiore del campo: «una volta fiorito, lo investe il vento e più non esiste»; «Gli anni della nostra vita sono settanta, ottanta per lo più robusti, ma quasi tutti sono fatica e dolore, passano presto e noi ci dileguiamo» (90, 5-6.10; 103, 15-16).
Si è aperta, fino all’8 gennaio 2017, a Firenze nelle Gallerie d’Arte Moderna di Palazzo Pitti la mostra “Tempo reale e tempo della realtà. Gli orologi di Palazzo Pitti dal XVII al XIX secolo”, a cura di Enrico Colle e Simonella Condemi (catalogo Sillabe).
La monumentale figura marmorea di Kromos di Gherardo Silvani accoglie i visitatori per l’occasione nel cortile di Palazzo Pitti, per indicare loro il percorso espositivo – allestito in alcune sale dell’Appartamento della Duchessa d’Aosta – alla scoperta delle molteplici forme che il tempo assume nelle varie epoche in cui la Reggia fiorentina fu residenza di tre diverse dinastie: medicea, lorenese e sabauda.
Studiati per lo più come parte dell’immenso patrimonio di arredi ed opere d’arte del palazzo, gli orologi, testimoni (quasi) silenziosi dello scorrere degli eventi, furono importanti per poter regolare i ritmi della vita a corte, oltre che simboli di prestigio per chi li possedeva.
Questo strumento, dal valore già altamente simbolico per la sua funzione, diviene l’unione di due poli solo all’apparenza opposti, la scienza e l’arte. L’insieme delle due anime dunque: da una parte l’orologio vero e proprio, composto di meccanismi sempre più sofisticati e complessi, dall’altra dotato di un proprio valore autonomo.
Apprezzati anche a Firenze non solo come oggetti d’arte, spesso di lusso e pregio inaudito, ma anche per il fatto di essere automi meravigliosi – come si sa dalle fonti fin dai tempi di Lorenzo il Magnifico – gli orologi delle collezioni medicee e lorenesi ci restituiscono l’immagine di una corte dove competenze meccaniche e tecniche erano ammirate non meno delle doti creative degli orafi che inserivano i meccanismi entro complesse decorazioni (molto spesso popolate di allegorie sul Tempo) e dove addirittura si stipendiava un orologiaio per mantenere in ordine i delicati meccanismi di questi oggetti preziosi.
Prima che l’orologio meccanico fosse messo a punto e perfezionato, la ricerca degli scienziati si servì dei mezzi il cui funzionamento era basato sulla lettura degli astri, principale punto di riferimento legato al naturale passare delle ore e dall’alternarsi del sole e della luna. A questo proposito è visibile un’ampia panoramica di strumenti come la replica del Giovilabio di Galileo o diversi esemplari di orologio solare, utilizzati per misurare il tempo prima della nascita dell’orologio.
L’arte orologiaia affascinava i nobili abitanti della Reggia, che si servirono dei migliori maestri attivi in Italia, e non solo, invitandoli presso la propria corte per la creazione di importanti pendole. Esempio di questo particolare rapporto è un orologio da mensola realizzato dall’inglese Ignazio Hugford nei primi anni del Settecento per Cosimo III. Inseriti in un suggestivo e spettacolare allestimento, i segnatempo in mostra documentano stili di epoche diverse, ed i gusti di coloro che si successero sul trono del Granduca di toscana: dalla sobria eleganza della religieuse decorata con lo stemma mediceo e con la mostra serrata dalla figura alata e barbuta, allegoria del tempo, all’orologio raffigurante una maestosa Aurora, ogni pezzo ci dimostra quanto fosse importante dare al tempo una materializzazione simbolica. Il quadrante diviene così il centro di una composizione che avvolge l’incessante girare delle lancette; principali fonti di ispirazione per gli artigiani che decoravano questi manufatti furono le divinità mitologiche, personificazione di idee astratte legate allo scorrere delle ore, ma anche animali dal significato metaforico, come l’esemplare di orologio da mensola allocato sul dorso di un elefante, simbolo di pazienza e longevità.
I segnatempo sono affiancati in mostra a dipinti in cui, fra i ricchi fondali scenografici, è possibile ammirare orologi simili a quelli esposti, permettendo al visitatore di immaginare così come dovevano apparire inseriti nel loro contesto originario. Ѐ questo il caso del grande Ritratto di Maria Luisa di Parma di Laurent Pécheux in cui appare un orologio in tutto simile allo strumento esposto, ma significative come accade nel capolavoro Le tre età dell’uomo di Giorgione, in cui l’idea del trascorrere del tempo viene affidata ad un enigmatica lezione di canto, testimoniando una volta di più lo stretto rapporto del passaggio del tempo con la musica.
Accompagnati dal ticchettio degli orologi, e suggestionati dall’idea di udire gli stessi suoni che echeggiavano nelle sale di Palazzo Pitti quando era ancora Reggia, si arriva alla sezione dedicata al rapporto fra tempo e musica. Se nella teoria musicale il concetto di tempo indica l’andamento, ovvero la velocità di esecuzione della composizione, altrettanto importante è stata l’applicazione dei congegni sonori al meccanismo dell’orologio, in modo da farlo suonare allo scoccare di ogni ora, o ancor più spesso. Questa consuetudine portò a sorprendenti risultati attraverso l’utilizzo dei segnatempo per il miglior funzionamento degli strumenti musicali. Superbo esempio ne è l’Orchestrion esposto nella sala della Musica, congegno in grado di suonare come un’orchestra, regolato dall’orologio a lira posto sulla sommità. Inoltre, la creazione di orologi musicali fu spesso associata all’uso di automatismi, come nel caso dell’orologio da mensola a forma di voliera con uccellini meccanici colorati, in un intreccio fra tecniche di orologeria e meccanica dagli esiti sicuramente meravigliosi.
Il tempo Reale, tradotto nelle forme dei preziosi orologi della Collezioni Granducali e Reali di Palazzo Pitti, si conclude simbolicamente con l’opera di Piero Bernardini La partenza del Granduca Leopoldo II da Firenze nel 1859, momento in cui le sorti della Toscana e dell’intera penisola viravano verso la realizzazione dell’unità nazionale. Il palazzo avrebbe di lì a poco cambiato il suo ruolo, divenendo spazio per il tempo della realtà, perdendo la funzione di reggia per acquisire quella di museo.
Maria Paola Forlani