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Gianfranco Cordì. Noi umani non possiamo fare a meno di chiederci cosa sia la nostra vita 
Speciale “Pensiero contemporaneo”/ 4. Intervista a Massimo Donà su “Filosofia. Un’avventura senza fine” (Bompiani, 2010)
19 Ottobre 2016
 

Nel volume Filosofia. Un’avventura senza fine (Bompiani, 2010) Massimo Donà si interroga sulla stessa interrogazione. Egli infatti pone in questione e dibatte il fatto stesso di fare filosofia, di porre delle domande.

 

In questo libro lei sembra volerci informare intorno al tema della consistenza (sia essa ontologica o semplicemente da vocabolario) del termine filosofia. Alla fine della lettura ci rendiamo più edotti su questa disciplina e capiamo un po’ di più del modo con cui la filosofia si rapporta al mondo che ci circonda. In che cosa si configura alla fine il sapere filosofico?

Potrei dire – volendo ridurre la questione in poche parole – che il sapere filosofico si configura da ultimo come ineludibile espressione della natura originariamente “interrogante” dell’esistenza in quanto tale. Provo a spiegarmi: noi esistiamo… direi che su questo non vi sono dubbi. Si tratti di un sogno o di una realtà effettuale (per ricordare le antiche questioni poste da Cartesio nelle Meditazioni Metafisiche), qualcosa “comunque siamo”. Anche per supporre che non si sia, infatti, bisogna presupporre che vi sia qualcosa, di cui si possa appunto ipotizzare il non-esserci. Ma cosa siamo, appunto? Ecco irrompere la vocazione interrogante connaturata al nostro esistere. Noi umani, cioè, non possiamo fare a meno di chiederci cosa sia la nostra vita …e cosa siano le cose tutte che la nostra vita accoglie e che costituiscono la sua infinita ricchezza. Come se quello che essa ci dice di essere, non lo avvertissimo come “soddisfacente risposta” alla domanda che essa in quanto tale “ci pone”. La domanda irrompe cioè sempre nella forma emblematicamente istituita da Socrate. Faccio evidentemente riferimento al ti esti. Una domanda che secondo Heidegger e molti altri avrebbe fatto perdere di vista la vera questione, quella dell’essere… spingendoci a guardare solo all’essente. Ma che non parla affatto dell’essente, dal mio punto di vista. Tale domanda, infatti, reclama il che cosa, proprio corrispondendo alla problematicità che l’essere in quanto tale, l’essere che c’è, in ogni momento esibisce. Le cose, in questo senso, appaiono ognuna secondo un proprio significato; quello indipendentemente dal quale non potremmo neppure muoverci nella vita. Quello, cioè, che ci muove alla realizzazione dei molteplici fini che ognuno di noi si pone nel corso della propria esistenza. Ma il fatto è che un tale significato non soddisfa mai l’interrogativo che le cose stesse ci im-pongono. Se lo soddisfacesse, infatti, non continueremmo a chiederci ‘che cos’è’… di quel che pur riconosciamo come un albero, come una nuvola o come un ponte. Le cose si mostrano come interrogabili perché appare originariamente evidente che potrebbero anche non essere quello che dicono di sé (dicendo appunto di essere un albero, una nuvola o un ponte). Ecco una delle questioni fondamentali intorno a cui si affaticano da secoli i filosofi. Ma perché le cose – che appaiono nel modo in cui appaiono – ci lasciano sospettare che potrebbero anche essere altro? Sì, perché per noi, che esse non siano quello che sono, significa che le medesime potrebbero sempre essere “altro”. Dopo Platone (in particolare, dopo il Sofista), infatti, il “non essere” viene sempre recepito, dagli umani, come semplice indicazione di qualcosa d’altro. Questa, la radice del problema che nella storia della filosofia sarebbe stato tradotto nei termini del rapporto certezza-verità, realtà e apparenza etc. etc. Ecco il senso del dubbio filosofico e dell’epoché socratica, ripresi tra Otto e Novecento da Husserl e da molti altri pensatori. Il filosofo capisce che le cose si palesano nella forma radicalmente “incerta” riflessa dal dubbio che nutriamo nei confronti della loro determinatezza. Ecco, “fare filosofia” significa dunque e innanzitutto (anche se “non solo”… evidentemente) aver cura per questa interrogazione che viene dalle cose stesse; un’interrogazione a cui non possiamo sottrarci, nonostante le cose non appaiano mai del tutto prive di significato… anzi. Nonostante, cioè, non appaiano mai come la notte in cui tutte le vacche sono nere. Appaiono, infatti, ognuna distinta dalle altre… spesso anche così specificamente distinte da farci credere di essere riusciti a conoscerle meglio di quanto siano riusciti a fare altre persone. Ecco, nessuna conoscenza (per quanto raffinata e specialistica) riuscirà mai a spegnere questa vocazione che le cose tutte, ossia i significati tutti, sembrano custodire a prescindere dalla profondità della ricerca con cui si sarà cercato di coglierne l’essenza o le leggi fondamentali. Per questo la filosofia non diventerà mai superflua; pur nella sua liberatoria “inutilità”. Per questo essere filosofi significa essere consapevoli che nessuna scienza, nessuna forma di sapere potrà mai spegnere la vocazione “interrogante-dubitante” che può farci sempre riconoscere che quel che sappiamo, delle cose, potrebbe anche non essere quello che le cose sono davvero.

 

Non siamo noi ad agire a causa dell’amore (che viene sempre a galla quando si parla di filosofia) ma è l’amore ad agirci. Già Platone nel Simposio diceva qualcosa di simile. Quando si fa filosofia in azione è dunque l’amore. Come agisce?

Certo, sempre Eros sta alla radice del nostro instancabile procedere verso il mondo e verso le altre persone. Noi agiamo, ma è Eros che ci muove e ci fa agire – perciò ogni azione è in verità una re-azione. Eros, lo sappiamo tutti, è figlio di Poros e Penia. Di espediente (o strategia) e di mancanza (o povertà). Ma cosa, propriamente, ci manca? Quale tipo di mancanza, cioè, ci muoverebbe verso l’amato/amata e verso la sapienza che in primis il filosofo sembra per l’appunto amare? Già il fatto che ci si muova dice che non stiamo bene là dove siamo; che non ci si sente a casa là dove ci si trovi ad abitare. Come se non potessimo fare a meno di cercare qualcosa che, là dove ci si trovasse ad essere, mancherebbe. Ma cosa, insisto, ci mancherebbe? In primis, tutto ciò che appare come altro da noi, e che, in quanto tale, viene avvertito come doloroso, in quanto espressione di una ferita che non possiamo non cercare di guarire. Tutto ciò che sta al di là di noi, e che, insieme a noi, costituisce il mondo che c’è, dunque, ci manca. Ci manca; ma, se ci manca, significa che potrebbe anche non mancarci. Significa che potremmo guadagnarlo e da ultimo possederlo. Se ne avvertiamo la mancanza, significa che lo desideriamo. Nessuno di noi, infatti, desidera mai qualcosa se non ne sente la mancanza. Non lo possiedo, ma sento che dovrei possederlo! Sento che dovrebbe essere “mio”. Che dovrebbe far parte di me; come se la mia vita fosse stata in un qualche tempo privata di tale “altro” e in me agisse una sorta di “memoria” (anamnesi) in grado di rievocare lo stato originario nel cui orizzonte quell’altro non mi sarebbe affatto mancato. Da ciò il grande tema della nostalgia dell’Origine; caratterizzante il grande Romanticismo. Qualcosa mi è stato strappato via… e la ferita continua a sanguinare. Da ciò il desiderio, che nasce sempre da una condizione dolorosa e tragica. Da una perdita. Da una mancanza ingiusta – lo sapeva bene Anassimandro… che ogni cosa esiste in quanto originariamente strappata da una pienezza originaria, che il tempo – e solo il tempo, secondo il suo ordine – ci consentirà di ripristinare (magari all’infinito – e dunque mai). Perciò si poteva parlare di Adichìa e Diche come motori di tutta la storia del mondo. Perciò “amore” è sempre espressione di una lacerazione; e nasce da una ferita. Amore è la spinta ce ci muove a cercare l’integrità perduta. Anche la conoscenza, d’altro canto, esprime – lo mostra benissimo Platone, nel Simposio – questo amore. Anzi, è una delle più potenti espressioni dell’Eros; che muove non solo alla ricerca della metà o dell’unità perduta, ma, più radicalmente ancora, alla ricerca dell’intero perduto. Conoscere infatti, è sempre un modo per cercare di definire la cosa nella sua verità; ma la verità può palesarsi solo là dove si sia in grado di connettere la cosa (ogni cosa) alla totalità delle sue condizioni. A mancarci è dunque sempre anche “il tutto”; quell’impossibile tutto che è tale, cioè impossibile, perché, se si lasciasse determinare, smentirebbe di essere il tutto (non potendo evitare di rinviare anch’esso, in quanto de-terminato, sempre ad altro, ossia ad un qualche determinante da esso non ancora abbracciato). Eppure è proprio verso questo “impossibile” che ci muove l’eros conoscitivo; volto anzitutto a farci superare la condizione sempre parziale e finita in cui ci troviamo, in ogni momento della nostra esistenza.

 

Lei scrive a pagina 44: «Ecco perché il filosofo “non vuole sapere tutto”; certo, egli vuole sapere ancora… anzi, sempre altro egli vorrà sapere rispetto a quel che sa, ma in cuor suo non potrà mai voler sapere tutto». Pitagora fu il primo ad usare la parola filosofo per descrivere quella che era la propria attività. Socrate affermò di non sapere in quanto filosofo, ciò che egli facesse. Se il filosofo non sa ma è amante del sapere non ama egli forse una mancanza?

Questa domanda mi consente di approfondire quanto ho appena suggerito, sia pur in modo ancora un po’ troppo approssimativo. Certo, è verissimo: gli uomini della conoscenza, di norma e in genere, cercano il tutto. Ma noi filosofi non vogliamo mai sapere il tutto, certo… solo in quanto filosofi, possiamo non cercare il tutto. In quanto consapevoli, cioè, da filosofi, dell’impossibilità che il tutto sia qualcosa di conoscibile… dell’impossibilità, cioè, che il tutto sia qualcosa. Cosa cerchiamo allora quando crediamo di volere il tutto, e ci dimostriamo ancora inconsapevoli dell’impossibilità di quel che crediamo di volere e desiderare più di ogni altra cosa? Già Rosenzweig, in opposizione a Hegel, aveva capito che il tutto costituisce uno dei più grandi idoli dell’Occidente. Nel suo nome si sono perpetrati i più immondi misfatti. Insomma, noi diciamo di volere il tutto (nulla può infatti mancare ad una conoscenza che voglia dirsi “vera”), ma in verità – ecco quello che il filosofo dovrebbe farci capire – vogliamo una incondizionatezza che, a ben vedere, poco ha a che fare con il tutto. Noi vogliamo una incondizionatezza che nega in primis qualsiasi sua possibile determinazione – anche quella che la vuole appunto come “totalità”. Vogliamo che la cosa che diciamo di voler conoscere riesca a dire l’incondizionato che, solo, può determinarla. Che la determina però non ab alio (altrimenti si tratterebbe di un’altra determinatezza, altra da quella che crediamo di voler conoscere); che la determina come “negazione” della medesima. Qui le cose si complicano, evidentemente. Ma il ragionamento va svolto e seguito con il massimo rigore possibile. L’altro che determina ogni cosa, in quanto incondizionato, non è altro dalla cosa da esso condizionata. Ma è necessariamente identico alla cosa di cui dice appunto il semplice “non”. In ogni cosa, quindi, a palesarsi è sempre l’incondizionatezza che la cosa, in quanto determinata, non dice. Dicendo, la medesima, solo la positiva determinatezza di cui proprio l’incondizionato dice la condizione di possibilità originaria. Di cui l’incondizionato, comunque, non costituisce qualcosa come il fondo nascosto. Nessun nascondimento, dunque (alla Heidegger). Solo un determinato può infatti nascondersi. L’incondizionato non è un qualcosa – magari il più grande qualcosa in assoluto. Ciò che determina il determinato è insomma il suo “non” (l’in-condizionato); che in quello (o meglio, nella sua determinatezza), solo, si palesa. Perciò il condizionato, il finito, manca solo di altri condizionati, ossia di questo o quello; ma mai dell’incondizionato. Che in esso, appunto, si palesa perfettamente, nel semplice mostrarsi del suo esser-negato. Nel mostrarsi cioè del suo non esser quello che è. Perciò il dubbio – di cui parlavamo prima – lungi dal testimoniare una radicale distanza dalla verità, dice l’essere illuminata, da parte della cosa (questa o quella), proprio dalla verità. Ecco perché quella del dubbio filosofico è una vera e propria esperienza di verità. E nessun “altrimenti” potrà scioglierlo, un tale dubbio, perché qualsiasi determinazione alternativa, in quanto colta nella sua verità, apparirebbe a sua volta avvolta dal “non” che, solo costituisce e rende possibile finanche la sua determinatezza. Noi amiamo la cosa o un’altra persona, dunque, solo quando siamo mossi al guadagno della verità che, pur nella mancanza da noi patita, comunque si palesa. Ché, a mancarci non è mai questo o quello, ma la verità che la semplice determinatezza non dice là dove la medesima non sia colta nel suo negarsi (alla luce del “non” che la rende possibile, e che, solo, costituisce la sua verità). Un “non” che non si nasconde affatto; anche se in molti, in troppi, non lo vedono. Non lo vedono infatti, pur essendo esso sempre presente, non appena ci si renda conto che la cosa (questa o quella, non importa) non è quella che dice di essere. Là dove si riesca a dismettere l’ossessione del voler tutto determinare; come riescono a fare, forse, talvolta, solo i grandi artisti.

 

Il filosofo ama la totale inesauribilità dell’ignoto. Aristotele afferma che la filosofia nasce dalla meraviglia. Il totalmente inesauribile ignoto meraviglia il filosofo. Perché?

In molti, anche il mio maestro (Emanuele Severino), ci hanno insegnato che nel concetto di meraviglia risuona anche un timbro “inquietante”. La meraviglia ha sempre anche a che fare con il terrore e con lo sconcerto per quel che si dà a vedere. Ma perché mai ci si dovrebbe sconcertare ed inquietare di fronte allo spettacolo del mondo? Cosa vi sarebbe di inquietante nell’esserci di quel che non-è. Leopardi l’aveva capito benissimo: ad inquietarci è innanzitutto il fatto che le cose tutte, esperite nella loro verità (come abbiamo appena ricordato), dicono che il senso che attribuiamo loro, e in base al quale decidiamo le nostre azioni nei loro confronti, non è mai tale. Ossia, che le cose tutte non hanno senso. O meglio, hanno un senso che è quello costituito dal loro non essere mai corrispondenti al significato in relazione al quale ci rapportiamo alle medesime. Leopardi, ma già Shakespeare, sapevano che nessuna cosa è quel che sembra dirci di sé; per cui il fare razionale, volto all’utilizzazione dell’essente secondo gli scopi che i significati delle cose sembrano costituire come raggiungibili, è un fare totalmente insensato. Sì che il mondo, a ben vedere, sia tutto fuori squadra, per dirla con Amleto. Che in ogni cosa, in ogni azione, in ogni evento, ad esprimersi sia appunto la follia – ossia un agire costitutivamente insensato. Mosso al raggiungimento di fini che non sono tali, e che soprattutto non sono giustificati dalle cose che sembrano evocarli e renderli possibili… perché neppure le cose sono mai quello che i loro fini sembrano appunto confermare. In verità, i grandi pensatori hanno sempre capito che, quel che sappiamo, non lo sappiamo affatto. Ecco il senso del sapere di non sapere di socratica memoria. Sapere cioè che quello che ci sembra di sapere è sconosciuto: questo significa sapere di non sapere. Ecco perché, come aveva detto un grande del Novecento, Andrea Emo, conoscere significa non tanto risolvere l’ignoto in qualcosa di noto (ossia, rendere sempre più piccolo l’orizzonte dell’ignoto, e far crescere indefinitamente l’orizzonte del noto), ma riconsegnare il noto all’ignoto. L’esatto opposto di quello che credono i più. Conoscere davvero le cose significa dunque sapere che fin troppo crediamo di sapere, delle medesime. E ricordare che ogni conoscenza dice qualcosa di ciò che essenzialmente continuiamo a non conoscere. Il filosofo (come il poeta e l’artista, più in generale) è dunque colui il quale ha cura per l’ignoto che pulsa nel cuore di tutto quel che conosciamo, e cerca disperatamente di renderlo riconoscibile. Paradosso dei paradossi: il filosofo vuole rendere noto l’ignoto che il noto, tutto, custodisce nel proprio cuore più profondo. Vuole renderci disincantati; mantenendo viva la meraviglia che nasce appunto da un’esperienza nel cui orizzonte quel che, per molti versi, sembrerebbe noto, ci dice di non essere affatto noto. Certo, per chi vuole conoscere positivamente e accumulare conoscenza su conoscenza (in senso positivo), questo è inquietante; perché ad ogni acquisizione il filosofo ammonisce: non farti incantare dalla ricchezza di quel che sei venuto a sapere, dalle cose nuove che hai positivamente scoperto… Ricorda che quel che sei venuto a conoscere (in senso positivo e determinato) in verità non lo sai. Tieni viva la fiamma della sacra non conoscenza che l’intelletto dovrebbe sempre tenere viva, per non farsi incantare dalla quantità (sempre parziale e non vera, in quanto positiva) di conoscenze acquisite. Da ciò il senso di un filosofare che dovrebbe disincantarci; ed evitarci di fare troppo affidamento su quel che pensiamo di conoscere e di dominare… perché potrà sempre venire falsificato (lo sa anche la scienza moderna e contemporanea)… ma non per un difetto della conoscenza acquisita, ma per la natura vera che ogni acquisizione custodisce e che spetta al filosofo testimoniare, corrispondendo alla natura originariamente aporetica di ogni verità determinata.

 

Lei scrive a pagina 56: «Insomma, solo nel presente (in quello stesso presente in cui, a esser manifesto, è solo qualcosa che non-è-più-quel-che-era) può accadere che “quello stesso che non è più quel che era”, di sé, dica anche e nello stesso tempo di non esser ancora quel che il medesimo potrà forse ancora diventare». Questo “non esser ancora” che cos’è?

Questo “non esser ancora” è ciò che il presente sempre ci dice e annuncia; e che, solo, giustifica il nostro agire. Noi agiamo infatti perché già ora, o meglio, fin d’ora, quel che c’è mostra di non essere quello che è. Agiamo, cioè, per rendere evidente quel che esso può essere, non essendo già più quello che, di sé, dice in termini di ‘passato’. D’altro canto cosa dice la nostra vita? Cosa dice, la medesima, ad ognuno di noi? Dice che quel che possiamo dire, di noi, è solo quello che non siamo più (il nostro passato – l’unica determinatezza che possa in qualche modo definirci, sia pur sempre imperfettamente). Ma se non siamo più quello che, solo, possiamo dire di essere (raccontando e rievocando il nostro passato), allora non possiamo che essere già altro. Ma questo altro non lo vediamo se non in termini di speranze e timori per il futuro (per quello che chiamiamo futuro, ma che in verità indica solo quello che ora temiamo o speriamo di essere). Perciò cerchiamo di fare quello che speriamo accada e cerchiamo di evitare che accada quello che temiamo. Ma così facendo non faremo altro che de-cidere queste possibilità ed incrementare quello che potremo, ancora una volta, dire di noi, sempre in termini di passato. Ogni volta, facendo quello che facciamo, incrementiamo il passato che solamente siamo, in positivo… (per quanto anche questo positivo in verità non lo siamo più), e ci rendiamo consapevoli che altro è ancora da fare, perché altro già siamo in verità, ma non sappiamo appunto cosa sia. Certo, detto tutto questo, resta comunque aperta un’importantissima questione: quella relativa al fatto che (come ho cercato di mostrare nel mio Sulla negazione, Bompiani) il non-essere e l’esser-altro non sono la stessa cosa. Fermo restando che è proprio a partire dal Sofista platonico che l’Occidente avrebbe deciso di lasciarsi alle spalle la questione del “non-essere” (perché aporetica e dunque irrisolvibile) optando per una comunque legittima traduzione del negativo nella semplice indicazione di un “altro” positivo. Del me on in eteron. Ma perché ho detto “legittima” traduzione, pur essendo la medesima responsabile della dimenticanza del senso del “non-essere”? Dunque, dicevamo che noi “facciamo”, ossia “agiamo”… traducendo di fatto il non-esser-più del passato nell’esserci di qualcosa che dovrebbe far emergere quel che fin d’ora, essendo il passato “passato”, dice quel che ancora non sarebbe, ma che già può essere fatto venire alla luce, appunto, in quanto il passato non-è-più. Ma cosa comporta il far essere, ossia de-terminare quel che non è ancora? E dunque destinarlo a farsi esso medesimo passato? E poi: è legittimo tradurre il non-esser-ancora del futuro (facendolo, agendolo) in un qualcosa di determinato che, in quanto tale, già non sarà più? Ossia: è legittimo mettere tra parentesi il “non” e lasciar emergere il positivo che l’esser futuro (il non esser ancora) del futuro non può che “negare”? Offrendolo nello stesso tempo ad un’altra negazione, quella che lo condanna appunto al suo ineludibile non-esser “più”. Insomma, chi ci autorizza a tradurre il negativo nell’esserci di un altro semplicemente ‘positivo’ (che peraltro, non appena emerso e venutosi a determinare, non potrà che venire “negato” dal suo farsi immediatamente “passato”)? Il fatto è (ecco il punto!) che l’improprietà di questa “traduzione” è solo apparente; stante che, certo, il “non” nella sua autentica significanza non aggiunge nulla alla determinatezza da esso negata, e soprattutto non indica qualcosa di positivamente e determinatamente diverso da quel che esso nega, ma neppure può determinarsi positivamente facendosi determinatamente “altro” dall’esser-altro di cui esso è appunto negazione. Ché, se fosse altro dall’essere altro, non si costituirebbe come un “non” irriducibile all’esser-altro. Ma sarebbe, evidentemente, immediatamente catturato dalla logica dell’esser-altro. Per non voler essere confondibile con l’esser-altro, si farebbe altro, smentendo così immediatamente la propria irriducibilità all’esser-altro. Perciò, in quanto irriducibile all’esser-altro, esso dovrà non esser altro dall’esser-altro. Ecco perché potrà sempre e comunque venire risolto nell’esserci-di-un-altro: quello che il nostro agire farà ogni volta essere al cospetto del non esser più da parte di quel che è (passato) e del doverci già essere, da parte di quel che non è ancora… Il cui esser già non potrà (dovrebbe essere chiaro, a questo punto), neppure esso, farsi alternativo rispetto al suo non esser ancora. Insomma, il non-esser ancora dice il negarsi di quel che già c’è in quanto futuro che l’esser passato del passato già chiama in causa. Perciò, ogni volta, “facciamo” solo per poter sapere cosa siamo già… ma una volta che lo si venga a sapere, quello che siamo già pur non essendolo ancora, e lo si trasfiguri, destinando anch’esso al suo farsi passato, quello che saremo venuti a sapere, del nostro futuro, già non lo saremo più. Ed altro saremo già diventati rispetto a quel che crederemo di essere diventati. Da cui un’aporia senza soluzione: mai saremo, infatti, se non quel “non esser ancora” che ogni guadagno ed ogni acquisizione ripristineranno in virtù del nostro non esser già più quello che crederemo di esser diventati. D’altro canto, è solo in questa aporia – nell’aporia della temporalità – che si dice appunto l’aporia del fondamento (come abbiamo specificamente dimostrato in Il tempo della verità (Mimesis). Ossia l’impossibilità che destina al naufragio il “principium firmissimum” proprio in virtù del suo trionfo. Che solo il “non-essere” sia, come vuole appunto quella che ho chiamato aporia del fondamento (in L’aporia del fondamento, Mimesis), ce lo mostra, in forma mirabile, il tempo – se non altro là dove si sia in grado di decifrarne il messaggio più autentico, per dir così. Là dove si capisca davvero cosa si mostri nel mostrarsi del futuro, cosa si mostri nel mostrarsi del passato e cosa si mostri nel mostrarsi di quel presente fatto sempre e solamente del non esser più di quel che siamo stati, e del corrispettivo non esser ancora di quel che, il non esser più di ciò che è passato, già indica come nostra comunque mai guadagnata destinazione.

 

Se non prendiamo coscienza della struttura temporale della realtà (in senso cristiano suddivisa in una freccia del tempo che va dal passato al presente al futuro) nulla mai potremo amare. Si ama nel presente? Si ama nel passato? Si ama nel futuro? Amore e tempo o amore a tempo?

Non si va mai dal passato al futuro; ma è il futuro che, una volta disegnato, si fa immediatamente passato, evocando ancora un altro futuro che, di volta in volta, là dove venga fatto essere, andrà ad incrementare il passato, e dunque la nostra storia. Perciò amare, se amare, come abbiamo visto, significa desiderare l’incondizionatezza, ossia il non esser, da parte di ogni cosa, quel che la medesima dice di essere (cosa o persona, è lo stesso), significherà anzitutto amare il tempo delle cose che sono. Ovvero, il loro non esser più quel che sono e il loro non esser ancora quel che il non esser più quel che sono già da sempre indica. Amare significa amare (in un senso che ha molto a che fare con una forma mentis specificamente ebraica) “il tempo” delle persone e delle cose; non la loro immagine statica, il loro spazio esistenziale; e neppure l’idea che, di esse, possiamo esserci fatta. Amare significa dunque amare l’ignoto che ogni esistenza (comunque sempre anche nota) custodisce. Noi non amiamo mai, insomma, quel che potremo essere in grado di dire, in positivo, delle persone; ma amiamo quel che esse non sono; ossia, la loro capacità di mostrarsi per quel che esse non sono. Guai dunque a voler risolvere il non sapere in un sapere più pieno. In relazione alle persone che amiamo dobbiamo piuttosto custodire il non sapere (il non sapere, di esse, quel che pur sappiamo); e quindi non dobbiamo sforzarci di risolvere il loro mistero nell’evidenza di un tutto chiaro e distinto. Che non solo è impossibile, ma là dove dovesse farci credere di essere stato raggiunto, destinerebbe quell’amore alla propria fine, al proprio irrimediabile esaurimento. Amare significa dunque tenere vive quelle determinazioni non concettuali che, sole, ci consentono di riconoscere e intercettare ciò che, della persona amata, solo “il tempo” riesce a testimoniare. Amore per sempre? Amore eterno? Amore a tempo? Questioni mal poste, direi. L’amore è affidamento radicale e incondizionato alla temporalità che l’amato ci offre quale condizione esperienziale necessaria a rendere l’esistenza sempre sorprendente, eccitante, se non esaltante – certo, anche inquietante, ma sicuramente mai condannata alla noia del già saputo e della grigia monotonia... forse sicura e rassicurante, ma in realtà solo apparentemente tale. Ché destinata a rendere la vita del tutto risibile e assai poco degna di essere vissuta.

 

Gianfranco Cordì


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