Seguono il cielo che si alza le piccole curve degli occhi, nel moto circolare della cenere che viene cosparsa sul corpo.
Non conosce soste nel moto discendente il volo che dall'esterno curva l'aria riproducendo il bianco del buio. Proprio come accade agli occhi, non è resa la terra al cielo, nemmeno se in sorte al cielo è destinata.
Sostanza propria del cervello è la pelle che si stacca dal palato, con la polvere delle ossa. Racchiusa all'esterno della bocca, si solleva e cade per ciascuna delle parti e per altre ancora. Sopra lo spazio interno delle piume, al calore intenso della fiamma, l'acqua che oscilla coincide con l'indugio delle ciglia.
La lettura approfondita di questo testo suggerisce ipotesi, polisemie, tracce che coniugano pensiero-emozionale e pensiero cogitante.
Ipotesi in quanto la poesia non è mai un'opera conclusa ma creta da plasmare ognuno secondo il proprio sentire e proprio agito. Un mosaico imprescrutabile entro cui meditare l'essenzialità misteriosa e ineludibile della vita.
Polisemia in quanto una stessa parola può associare molte connotazioni dipendenti dalla “originalità” di ognuno, dalla tensione verso la parola poetica, dall'amore che spinge un poeta a scegliere un linguaggio che scarti la norma e l'ovvio gli stereotipi esprimendo la forma d'arte più completa nel contenere in sé immagine, suono, scrittura e voce.
Aggiungo tracce come passaggio, orme che restino a dare voce e si aprano al dialogo.
Il poeta di questo testo è Flavio Ermini.
Tocca il cuore il tentativo dell'uomo di aprirsi al mondo e guardare al cielo, mentre il suo corpo si forma e si trasforma per nutrire alla fine e di nuovo, la terra generatrice in un sofferto alternarsi di vita e morte.
Per questa forte presenza di dolorosa consapevolezza rimanderei al leopardiano “molcea il cuore”. Flavio Ermini, è poeta e filosofo ma non sempre poesia e ricerca ontologica si corrispondono; in quel divario, in quel “finis” germina la sua parola e forte sovraesposizione emozionale.
In obliquo e senza sosta la discesa del volo che curva l'aria forse in tentativo di risalita fino al bianco del buio proprio come i nostri occhi nell'aprirsi e chiudersi, nell'accogliere buio e luce; la luce è bianca, sorprende le cose in abbaglio, in miraggio, in oasi criptate. Oscuro è invece quel vedere che il buio definisce e che il poeta destina al cammino dell'uomo – Noi siamo della razza di color che stanno a terra – senza montaliane occasioni né varchi. Gli uccelli volano ma torneranno a terra e non sarà il cielo luogo destinato alla loro accoglienza.
È negata agli uomini l'azzurrità, scriverà il poeta Ermini. È così che l'azzurrità non è luogo del cielo ma un non luogo del cammino umano, sarà desiderio, spinta d'amore e ben presto illusione infranta fino alla consapevolezza di un percorso altro. Quello difficile di camminare ai limiti, ostili sempre al comune e preordinato e andare nonostante (Essere il nemico sarà un altro importante testo dell'autore) e per sottrazione a tessere di mosaico, ad una parola depurata e nata prima, molto prima di essere formulata come un'ecografia che accenna nel liquido amniotico al formarsi di un'essenza.
Il formarsi del pensiero trova voce nelle labbra che si aprono al dire, a proferire l'inizio, a ricercare l'ápeiron, a coniugare pensieri... Sopra lo spazio interno delle piume... Torna l'immagine delle piume, del volo, del mito di Icaro, del voler superare Karlsár, di una supremazia negata all'uomo. L'acqua che oscilla coincide con l'indugio delle ciglia ed è lacrima, dolore, consapevole cammino verso un dove oscuro che conosce pazienza e pianto.
Patrizia Garofalo (testo e foto)
Flavio Ermini, Karlsár. Scritture 1994-1997
Saggi di Maria Corti, Carlo Gentili, Giorgio Taborelli
Disegno di Toti Scialoja
Anterem, Verona 1998, pp. 79