Iaia Caputo
Era mia madre
Feltrinelli, 2016, pp. 168, € 15,00
Napoli, tempi recenti. Tutto sembra avere origini dagli errori del padre, a lui Alice ormai adulta attribuisce ogni responsabilità, della propria e dell’altrui sofferenza. Costretta a dividere di nuovo la stessa casa di famiglia, continua a chiamarlo Arturo da quel 1994 che segnò la loro vita. Quella mattina i carabinieri si erano presentati a casa loro per arrestarlo: era stato accusato di essersi fatto pagare, per sé e per la sua corrente, una grossa tangente da un imprenditore per ottenere appalti. La vergogna trasforma in odio l’amore della figlia.
Ma è la madre che occupa la scena. Ora Alice è tornata da Parigi dove risiede – ha scelto di dedicarsi alla danza – perché deve assisterla. È successo tutto all’improvviso mentre si stavano salutando alla Gare de Lyon. La madre rientrava in Italia dopo una visita alla figlia ma avevano vissuto situazioni di difficoltà relazionale e comunicativa.
L’ultima immagine negli occhi della madre è stata quella di un ragazzo che suonava il piano alla stazione, un ragazzo straniero, senza dubbio della banlieu parigina. Poi la rottura improvvisa di un aneurisma cerebrale e il buio e il coma.
I rapporti tra madre e figlia erano diventati sempre più difficili, vuoi perché la figlia si era allontanata da quelle che riteneva le aspettative – la madre era un’insigne grecista –, vuoi perché al momento del dramma familiare Alice avrebbe desiderato che abbandonasse il marito e scegliesse la figlia. Una madre che aveva cercato comunque la bellezza, nella cultura, nell’arte, in ogni cosa di cui si circondava, un mondo da cui Alice si era sentita esclusa. Aspramente critica della situazione di agiatezza e benessere raggiunta dai genitori, li accusa con durezza di aver rubato il presente e il futuro alla sua generazione.
Ora però le siede accanto in una stanza d’ospedale, dove giorni e notti si assomigliano e a casa padre e figlia non sanno parlarsi. Trasversale al romanzo è un diario che Alice trova sul suo letto di ragazza, dentro una cartellina: Lettera a una figlia che parte. È lì che la madre si racconta e parla con piena sincerità e senza timore di giudizio.
Questo aprirsi tardivo colma lacune affettive, ricostruisce pian piano verità sconosciute. Ci sono situazioni che Alice non riuscirebbe a capire da sola – la madre ha abbandonato il marito per una nuova forte passione ma poi è tornata. Quando è successo? Perché? È stata costretta? Chi è l’altro?
Arturo è un padre rassegnato al disprezzo, anche se è stato prosciolto dalle accuse che lo avevano infamato. Non si sottrae a svelare il passato, non giudica la moglie e non condanna, conosce bene le ragioni per cui lei era tornata.
Iaia Caputo crea delle figure tormentate e bellissime, ognuna col suo dramma, ognuna col suo straziante bisogno di amore e di comprensione. In un crescendo di emozioni e di ricordi, Alice prende coscienza di sé, addolcisce il tono di voce, si sente di nuovo veramente a casa e si sostituisce alla madre nella cura del giardino. Di lei capisce solo ora la grandezza, la forza e l’amore. Intanto si accorciano le distanze e per la prima volta dopo vent’anni prova l’emozione di pronunciare di nuovo la parola papà.
Marisa Cecchetti