Per oltre vent’anni, e in particolare negli ultimi anni, mi è più volte capitato di dover definire il ruolo che ricopre l’arte nel sistema educativo. A quanto pare è convinzione comune, o quantomeno largamente condivisa, che l’arte – in genere – non abbia alcun risvolto pratico nella vita quotidiana; che pagare per visitare un museo sia un inutile spreco di risorse; che leggere sonetti, o praticare l’ars poetica, resti un lusso per pochi: per chi ha tempo da perdere; chi non ha di meglio da fare che «riempirsi la testa con un sacco di scemenze». L’accanimento verso la poesia è maggiore, in quanto è l’arte più arcana, ostica, e più delicata che esista. E, in effetti, appare difficile distinguere un idiota da un poeta, visto che entrambi rigettano la sintassi ufficiale del parlare comune.
Allo stesso modo, risulta difficile scegliere tra falsi valori e ciò che ci sta davvero a cuore; tra i rapporti di facciata e l’affetto sincero di persone a noi vicine; separare il grano dal loglio, gli echi mediatici dal nostro vero ego; rinunciare alla chat di Facebook – o a una puntata di Grey’s Anatomy – per una giornata in compagnia.
Ditemi come può, un ragazzo di oggi, preferire la Guernica di Picasso ad uno schermo ultrapiatto di 60" se i genitori non lo tengono mai spento. Come può, una ragazza di oggi, credere che esista l’amore, così come lo descrive John Keats, se l’amore si riduce a un’emoticon (le cosiddette “faccine”), a un’app scaricabile gratuitamente, a un irritante TVB che fa vibrare l’iPhone durante le ore di lezione.
Colgo la palla al balzo per ringraziare l’associazione culturale e il loro staff per il lavoro che hanno svolto in questi mesi. Il sindaco e l’intera comunità qui presente per l’accoglienza riservata al progetto. Portare l’arte fuori dai santuari in cui giace prostrata è un impegno gravoso e spesso poco edificante. Ma significa educare i nostri figli alla bellezza: un obbligo cui ottemperare se si spera di restituire l’arte al proprio ruolo. E siccome mi piace trasportare i miei discorsi sul piano pratico, e credo piaccia anche a voi, vi dirò cosa accade, praticamente, quando nessuno ci avvicina alla bellezza. Se volete sapere cosa accade quando l’uomo ha rinunciato alla bellezza, basta guardare alle migliaia di aree verdi inquinate, ai parchi naturali costellati di alluminio, posate monouso e bottiglie di spumante. Per non parlare della terra dei fuochi, dello scarso interesse riservato al referendum “No-Triv” del 17 aprile; delle tardo-adolescenti, come Sara Di Pietrantonio, vittime di mostri che non hanno la bellezza dentro; di adulti che non hanno alcun rispetto per le mogli, di giovani violenti col pallino delle ex.
Ecco alcuni esempi di persone che non conoscono la bellezza, che non la rispettano o che tentano invano di assoggettarla attraverso gravi forme di violenza psicofisica. Ed ecco una frase che la madre del carnefice ripete all’infinito: «È un ragazzo come tanti, non ho mai fatto male a una mosca prima d’ora». Un ragazzo come tanti. La verità ci arriva come un pugno dritto in faccia. Ma quell’aspetto da ragazzo perbene – ha lo stesso taglio di capelli di tuo figlio – è addirittura più agghiacciante dei suoi occhi. Dello sguardo glaciale ripreso nelle note apparizioni tv. Della sua voce robotica mentre risponde alle domande del P.M. Una voce disumana,sfarfallante, quanto il ronzio di un apparecchio difettoso.
Lo scopo della manifestazione in atto – sottotitolata “L’Uomo, il Suono, la Natura” – è proprio quello di riconciliare l’individuo alla sua umanità, in parte reimpostando un dialogo con l’ambiente circostante, ma soprattutto rieducando i cittadini alla bellezza. Dostoevskij, in uno dei suoi romanzi migliori, scrive: La bellezza salverà il mondo. Oscar Wilde, ne Il ritratto di Dorian Gray, scrive: La Bellezza è una forma del Genio, anzi, è superiore al Genio perché non necessita di spiegazioni. Essa è uno dei grandi fatti della terra, come la luce del sole, la primavera, il riflesso nell’acqua scura di quella conchiglia d’argento che chiamiamo luna. E la bellezza, ci insegna Goethe, è negli occhi di chi guarda. La bellezza è uno stato interiore, un modo di essere e di vedere la realtà, una specie di lente oftalmica che ci permette di focalizzare il lato nascosto delle cose e di mostrarlo anche agli altri. La bellezza è una moneta fuori corso.
In secoli di egemonia incontrastata, la società occidentale, ufficialmente democratica e liberista, ha preferito il tornaconto delle multinazionali all’ecosistema che abitiamo. L’invasione anglo-americana dell’Iraq, che i telegiornali del 2003 ci avevano inverosimilmente spacciato come una guerra di liberazione, si è rivelata un crimine senza precedenti. Stando al rapporto Chilcot, l’allora primo ministro britannico Tony Blair potrebbe essere processato come criminale di guerra. E infatti il numero di civili che hanno perso la vita sotto i raid della coalizione non è secondo al numero di vittime dovute alla successiva destabilizzazione del Medioriente, già fragile all’alba di quel conflitto. Ad averci guadagnato, ceteris paribus, sono le compagnie petrolifere, l’industria bellica e le organizzazioni criminali.
Perché i rifiuti prodotti dal nostro incontrollabile metabolismo capitalista, dall’agribusiness e dalle aziende non a norma, quando non vengono sepolti nelle campagne dell’Agro Aversano o di Villa Literno, vengono illecitamente smaltiti nei paesi dell’Africa subsahariana, i cosiddetti PPTI (ovvero: Paesi Poveri Troppo Indebitati), a scapito della popolazione autoctona di quelle terre. Perché il traffico di armi dall’ex Jugoslavia, gestito dalla cosche della malavita europea, rifornisce i miliziani del Califfo Abu Bakr, gli occidentali jihadisti, i kamikaze con kalashnikov e cinture esplosive.
Vorrei che ogni volta che appare un bambino malnutrito in una campagna di raccolta fondi, che sia del Congo, della Somalia o della Guinea Equatoriale, pensiate sia colpa vostra. Delle vostre irresponsabili scelte durante il seggio elettorale, delle vostre futili sofisticherie alimentari, e, quel che è peggio, della vostra stupida, insensata vanità. Ogni volta che acquistate un abito a prezzi stracciati made in P.R.C., pensate in termini di sacrificio umano quanto è costato quel vestito. Alle undicenni chiuse in fabbrica per un salario da miseria; al tempo che nessuno gli potrà restituire, e che trovate esposto in saldo nei negozi, con le istruzioni di lavaggio. Pensate come debba sentirsi una donna – una moglie, una madre bangladese – nel vedere i familiari sfruttati in condizioni disumane. Allora capirete il motivo del loro odio inveterato – capirete perché ci assalgono alla prima occasione – e che il motivo siete voi.
Vorrei che vi sentiste responsabili – esatto, responsabili – non dico di tutto, ma almeno in parte della povertà nel mondo. Come possiamo pretendere, dopo aver istaurato l’inferno al di là delle frontiere, che un po’ di cenere non cada sui bastioni. E tuttavia la maggior parte di noi continua a perpetrare e ad ignorare le sue colpe. Lo si legge nei commenti Facebook della scorsa settimana – dopo la terribile strage di Nizza o l’omicidio di Emmanuel Chidi Namdi – quando fioccavano tributi al neofascismo, post a favore della guerra, esortazioni a bombardare le roccaforti dei nemici.
Mi sembra incredibile che nel XXI secolo, con le università gremite di studenti, gli erasmus e i voli transcontinentali, l’installazione dei modem in ogni casa del pianeta, ci sia chi inciti alla guerra. Che, nonostante il multiculturalismo scolastico e la globalizzazione dei mercati, si parli ancora di razzismo. Che esistano parole come «extracomunitario», «immigrato», «xenofobia» e che non cadano in disuso. E trovo incredibile – o quantomeno irritante – che a voi non sembri incredibile. Scrive Marcuse: in virtù del modo in cui ha organizzato la propria base tecnologica, la società industriale contemporanea tende ad essere totalitaria. Il termine «totalitario», infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti. Era il 1964. La nostra guerra al terrorismo l’abbiamo perduta da un pezzo. Ogni volta che un soldato imbraccia un fucile, ogni volta che un jet sorvola la no-fly zone per bombardare un accampamento nemico; ogni volta che qualcuno, chiunque esso sia, pronuncia la parola “nemico”, noi perdiamo la guerra. Ogni volta che un uomo, un uomo qualsiasi, maltratta una donna qualsiasi in qualunque parte del mondo, perdiamo la guerra. Ogni volta che giriamo la faccia, che restiamo indifferenti al dolore e alle invocazioni di chi soffre, noi perdiamo la guerra. Tutti noi, ognuno di noi, nessuno escluso. La bellezza salverà il mondo. Abbiate cura delle cose belle.
Marco Amore
(Discorso introduttivo al Reading “L’Uomo, il Suono, la Natura” tenuto in occasione della manifestazione artistica “Terravecchia 2016”.)