Circa un quarto di secolo fa, quando ancora l’educazione interculturale era prevalentemente assente nelle scuole italiane, nelle piscine scolastiche di Birmingham, una delle città britanniche con più alta presenza di etnie di diversa origine, si potevano vedere le ragazze musulmane dai dodici anni in poi, che frequentavano le lezioni di nuoto secondo gli usi e i costumi della famiglia, per un verso, e della comunità britannica, per altro verso. L’educazione fisica era un insegnamento obbligatorio e gli insegnanti non potevano esonerare nessuna delle allieve. Le famiglie musulmane non permettevano alle figlie di fare lezione di nuoto in costume da bagno. Di conseguenza, le ragazze si trovavano a vivere uno stato di forte pressione essendo da un lato chiamate all’obbedienza dovuta ai genitori, all’adesione alla loro fede, alla appartenenza alla comunità, e d’altro lato erano comunque desiderose di seguire le lezioni e la vita della scuola senza disattendere quanto il programma prescriveva ed essere considerate a parte nel lavoro del gruppo classe. Il problema veniva posto con serietà e comprensione, al punto che le autorità politiche e scolastiche avevano affrontato diverse volte il tema andando alla ricerca della soluzione migliore per tutti. Una soluzione che garantisse il rispetto reciproco dei costumi tradizionali e delle norme condivise. I governi centrale e locale invitavano ad evitare scontri drastici che avrebbero recato danno alle ragazze e sollecitavano a scegliere sempre la via privilegiata del dialogo tra scuola e famiglia, in modo da giungere a sane negoziazioni. Bilanciare le esigenze e le aspettative era un principio importante, una premessa alla concordia sociale. Le scuole non potevano essere forzate ad imporre una fede specifica ad ogni bambino come richiesto, per esempio, da alcune organizzazioni musulmane fondamentaliste che avrebbero voluto educare tutti i musulmani solo all’Islamismo portando come paragone le scuole confessionali dei cattolici, della chiesa d’Inghilterra, degli ebrei. Il fondamentalismo islamico poteva generare problemi religiosi, sociali, politici dal momento che da alcuni aderenti non venivano accettati compromessi, vie di intesa, con la cultura dominante. Per il fondamentalismo che rifiutava la negoziazione, non era pacifico che la cultura dominante britannica dovesse essere la prevalente nell’educazione dei giovani musulmani che vivevano nel Regno Unito. La strategia dell’equilibrio tra esigenze culturali specifiche e aspettative della cultura nazionale prevalente era dunque materia di educazione interculturale. L’identità britannica era la cultura prevalente e questo era ragionevolmente accettato nei curricoli scolastici per motivi di identità nazionale, di cultura tradizionale e di necessità storica, senza esclusione del rispetto delle numerose etnie presenti nel Paese.
Nelle scuole statali la compresenza di ragazze aderenti a diverse religioni conduceva all’adozione di programmi di studio basati sulla presentazione di varie confessioni: cristianesimo, islamismo, induismo, buddismo, ebraismo, rastafarianesimo e spesso gli insegnanti orientavano alla crescita della consapevolezza dell’opportunità di condurre i bambini alla individuazione degli aspetti comuni alle varie fedi. Si mostrava come tutte le religioni avessero un fondatore, dei discepoli, dei giorni di festa, delle celebrazioni comunitarie, dei riti, dei luoghi sacri, delle preghiere, delle norme etiche, una educazione al sentimento del divino, una spiritualità. Caratteri espressi in forme diverse ma di grande portata identitaria per ciascuno e per tutti. Mettere d’accordo il particolare con l’universale era una sfida che la scuola britannica accettava in pieno e alla quale mostrava di saper rispondere adeguatamente, considerato che nella città si respirava un clima di accoglienza, rispetto, reciprocità. Tra scuola e società non c’erano fratture e chi era stato educato secondo i principi interculturali aveva introiettato le regole della convivenza civile che già lasciavano prefigurare la nascita dell’era della globalizzazione.
In Italia il percorso è stato parallelo, anche se partito qualche anno più tardi rispetto al Regno Unito. A distanza di alcuni decenni osserviamo che i giovani che vivono in Europa sembrano essere stati ben preparati dalla scuola a vivere nella società multiculturale, nonostante i segnali di disattenzione che possono venire da fonti autorevoli. Ricondurre la politica sociale sul sentiero della politica scolastica potrebbe aiutare a non far perdere di vista i traguardi preziosi già raggiunti ed incancellabili.
Sandra Chistolini
Approfondimenti: Fondo Birmingham presso l’Università di Macerata