Questi versi sono intrisi di un intenso pathos, intessuti dell’avventurosa vicissitudine personale dell’autrice, la quale ha seguito il padre militare nei suoi vari spostamenti a Mogadiscio, Bruxelles, Roma. Si avverte la risonanza di questa esperienza forte che si è impressa a caratteri di fuoco nella sua visione esistenziale: «Uncinate dalla scure/ le parole si divincolano./ Cercano respiro/ a terra/ e/ rantolano./ È una pace che non verrà/ Desideri smarriti naufragano/ dentro un gorgo d’odio/ Si addensa fitta nebbia/ tra corpi lacerati./ Le stelle barcollano,/ qualcuno inciampa/ cade. Colpisce/ per troppa luce».
È una poesia elevata, come una vertiginosa cattedrale eretta sull’abisso della sofferenza, innalzata tanto più in alto quanto affondata nell’humus della mortale miseria, canto sublime che echeggia il grido della terra martoriata: «“La nostra terra è impastata più di morti che di vivi”/ la tua voce sopra l’orrore/ dipinge di versi sentieri/ indica la strada del rifugio./ E la luce che colora i tuoi tramonti/ addolcisce il sole cocente e la deriva dei naufraghi,/ corpi sventrati dagli uomini/ che li vollero servi di regalità spodestate./ Avverto una velatura pesante/ scendermi negli occhi./ Mi appare lontano oggi/ il declinare sentimenti d’amore/ resto appesa al tuo dirmi del mondo». Un lirismo appassionato pervade la dolorosa vicenda umana franta nella drammatica dialettica di vita e morte trascesa dall’impeto divino dell’estasi contemplativa: «Lenzuola di nuvole/ dalla trama del cielo/ scendono/ a coprire di vento/ quanto resta della mattanza/ convogli abbandonati/ ustionati dell’arsura/ attendono all’orizzonte/ un sudario di stelle»; «Senti,/ percepisci/ t’inveri/ all’alba/ come d’estate/ il sogno…/ trasparente velo/ in appannata vista./ S’allaga di sole/ il pensiero del mare./ Rifrazioni di luce/ i miei passi./ Trascolora/ la guerra/ nei campi di grano».
L’angoscia è il retroscena sempre presente dietro il sipario della bellezza, la quale sprigiona un fascino tanto più folgorante quanto più scaturisce da un vissuto travagliato – come scriveva Musset (“nulla ci rende così grandi come un grande dolore”) –, apparendo come velata da una segreta mestizia: «Lontano/ un lago di luce violata/ si dissolve/ nella foschia dell’orizzonte./ Gabbiani/ affamati/ disegnano/ lente spirali/ sopra tetti grigi./ Non torneranno più le rondini»; «Notti stellate da incendi/ sparigliano il gioco del cielo/ sorriso ferito/ bacio umido/ amore deserto/ ombra di luce e refrigerio/ il vento respira/ sui tuoi occhi/ e spettina le parole»; «Nuvole d’onde trafugate al mare/ l’esilio s’abbevera di sabbia, sassi e sangue/ inghiottito dalla nostalgia/ radice bruciata/ parascenio vuoto/ interrato/ a scavar parole/ nell’inferno dei viventi».
La consapevolezza della tragicità della condizione esistenziale suscita la profondità della meditazione: «L’avvertimento del vento/ giunge da lontano/ ombra nomade/ deserta luce/ dolore consueto/ pietosa onda/ asciuga gli occhi del mare/ ché non bruci/ all’arsura inquieta/ del distacco»; «arrampica il vuoto la luce/ cerca il respiro del cielo/ d’un tempo senz’ora/ in ferrosa spirale/ il contatto di mani/ gronda l’orrore del/ fine-pena mai».
Spiccano intuizioni incisive e acute: «Come da una bottiglia/ scorre la vita»; «Il sipario leggero/ svela il dolore/ che affatica»; «i peccati attendono sempre d’essere vestiti d’amore». Nonostante l’orrore, resiste, tenace e ineffabile, l’amore: «Paratie al mare/ Alte risuonano dall’onda/ Rovine di scogli/ Ormeggiate a nascondere/ Lacrime/ Assordanti/ (…) Per amarvi/ Annebbiato Fantasma/ Resisto al dissenso/ Ormai/ Lontana/ Attendo». Il dolore è connaturato all’essenza stessa della vita, incastonato nella sorte dell’uomo: «Migrano/ a stormi/ ombre/ esauriti fuochi/ stelle di vetro/ nidi fucilati/ gorgoglii di sangue/ fili agugliati/ nella logorata trama del nostro niente»; «Mi pesano sulla schiena/ tanti ultimi respiri/ piango dalla bocca/ lacrime impastate di sangue».
Un mistero indecifrabile sottentra all’affannosa lotta quotidiana: «Se non custodissimo quel segreto/ sarebbe vano il viaggio/ scommessa risolta/ realtà svelata/ dubbio divelto alla radice./ I bonsai sono aborti di piante/ nani che piangono alla mensa dei buffoni./ Deserto è la parola svelata/ anche quella di Dio».
L’altrove s’affaccia dalla realtà sofferta come un palpito d’infinito, una vertigine d’assoluto: «Sarà faticoso trascinare/ nuvole basse/ a sfiorare il mare/ spianare le onde/ dimentiche di vele/ appesantiti sudari/ di abissi colmi fino all’orlo/ la riva è il perimetro/ del nostro dirci/ nelle lenzuola d’acqua/ annebbiate dalla sera/ parlavi di matrimonio/ tra stelle e cielo, tra cielo e terra,/ tra stelle e stelle/ tra cielo e cielo/ questa sera annotta prima/ almeno sembra/ affidiamo al silenzio/ un supplemento d’anima».
I versi di Patrizia Garofalo hanno il sapore di un’inquietudine che trae la sua sorgente nascosta dagli abissi interiori, come dai flutti indomiti del mare, dove sbocciano le gemme di luce delle parole, quali girasoli appunto: «Girasoli di mare/ senza rifugio/ radicati negli abissi/ il buio dei fondali/ trattiene gli ultimi fiati/ in asfissia/ di luce».
Flavia Buldrini
(da Literary, 7/2016)