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Alberto Figliolia. Yes, President Obama... 
Un brano dedicato a Abdul Qadir Jeelani, morto il 4 agosto
06 Agosto 2016
 

«Yes, President Obama è un basketball player, è un black man, ha origini africane, lo provo a spiegare – ai giornalisti che mi chiedono, ma anche a me stesso – come sia possibile che nessuno abbia risposto al mio appello di aiuto. Sono nato negli Stati Uniti d’America, la terra delle grandi possibilità, della tolleranza e del liberismo, dello sport come ascensore sociale, e adesso anche un Presidente che tutti questi valori sembra incarnarli al meglio. Sono nato a Bells, paesino di 2000 anime in Tennessee, e cresciuto a Racine, nel Wisconsin. Qualche decina di migliaia di abitanti, e una storia di industria (dicono che i primi asciugacapelli vennero inventati qui nel 1920) e di lotta di liberazione. Il basket mi ha permesso di frequentare l’Università e poi di girare il mondo. Ma “l’America” è anche la terra che mi ha abbandonato, che mi ha lasciato solo».

Chi parla è Abdul Qadir Jeelani, nato il 10 febbraio 1954, ex asso del parquet, chi trascrive Simone Santi, imprenditore, viaggiatore e fotografo, presidente della Lazio Basket e inventore e propugnatore del Progetto Colors nel quale si mescolano felicemente solidarietà, multiculturalismo, passione per lo sport e lavoro.

E ora un passo indietro… Chi ha segnato il primo canestro di sempre dei Dallas Mavericks e chi ha insaccato il primo libero nella storia della franchigia di Dirk Nowitzki, campione NBA 2011? Lui, Abdul Qadir Jeelani, nato Gary Cole, 203 cm di classe purissima, sopraffina, come hanno potuto ammirare gli adoratori della palla a spicchi del Bel Paese negli anni che vanno dal 1977 al 1979 (Lazio Basket) e dal 1981 al 1985 (Libertas Livorno). Fra le due esperienze italiche, una militanza NBA targata Portland Trail Blazers e, per l’appunto, Dallas Mavericks. La carriera di Jeelani è finita poi nel Saski Baskonia, quando il ragazzo di Bells/Racine aveva solo 33 anni.

Danzava nell’aria Gary-Abdul, detto anche La Mano di Maometto, facendosi beffe d’ogni difensore: plastico, vellutato e spietato; libellula leonina; tecnicamente un califfo con un campionario vario quant’altri mai; praticamente immarcabile; morbido il tocco e punti a non finire; elegante in maniera quasi imbarazzante. Uno dei migliori mai venuti da queste parti. Uno che se la giocava anche là, oltre Oceano. Uno che dopo la gloria sportiva ha conosciuto i rovesci della sorte, la perdita di lavoro e averi, la sventura economica, la malattia che sventra, fisicamente e psichicamente, e, soprattutto, la solitudine e l’emarginazione sociale. Ma, quando tutto sembrava essere precipitato e Abdul soggiornava nel centro dei senzatetto di Racine, ecco che in Italia qualcuno si ricorda del vecchio idolo delle folle. Costui è Simone Santi. Simone lo richiama a Roma e gli affida l’incarico di allenare i bambini di due centri della periferia di Roma. Il campione riacquista nuova vita e la linfa del suo entusiasmo e quella della passione mai doma si riversano sull’infanzia che ancora ha tante speranze, che è il futuro.

Una bella storia, a lieto fine, come non ce ne sono tante in questo duro mondo, una storia dove i sentimenti e la buona volontà trionfano. Una vicenda che Simone Santi ha trasferito, nel 2011, in un altrettanto bel libro – Abdul Jeelani ritorno a colori – che a un certo punto si fa, con un sapiente espediente, anche fiction (al lettore capire dove, quando e come). «Ci sono dei momenti in cui un uomo dovrebbe avere la forza di fermarsi, sentire il rumore del mare, guardare il colore delle stelle, assaporare la vita. Oppure ci sono momenti in cui un uomo dovrebbe scrivere poesie. Nella mia vita non riesco a fermarmi o scrivere poesie, ma quei momenti esistono, e oggi provo a raccontarli, affinché non volino via».

«Mi sono avvicinato al Progetto Colors di Lazio Basket perché dove vedo Lazio, vedo casa. Quando ho conosciuto le persone che lo portano avanti e la loro passione costante, ho capito che la grandezza dello sport diventa assoluta quando incontra la solidarietà. Per questi bambini la storia di Abdul Jeelani è la straordinaria testimonianza di come lo sport può farti tornare a vivere, a sognare. Il pallone si sente al sicuro nelle mani di un campione come Abdul, proprio come questi ragazzi si sentono protetti tra le braccia di Progetto Colors (Andrea Bargnani ne è testimonial, nda), per loro sognare il domani ora è possibile», è la testimonianza di Cristian Daniel Ledesma, calciatore e capitano della Lazio.

Il racconto di Santi si dipana su vari piani: la storia del campione; i ricordi dello stesso Simone, appartenente a un’autentica dinastia cestistica; le vicende di Regina, leader della squadra dell’orfanotrofio di Zimpeto, Mozambico, il Lazio Basket Maputo; le aspirazioni, le paure e la voglia di essere di Vincent, bambino d’origine filippina. Tutto s’intreccia, tutto è interconnesso, e nessuno è solo. Il basket come crocevia, passaggio obbligato, incontro e condivisione, strumento di riscatto sociale e metafora esistenziale.

Scorriamo le pagine del libro e ci perdiamo fra parole e immagini… L’immenso campionato con l’Eldorado e la promozione in A1. Il duo Restani-Jeelani per una Livorno da festa popolare. I 37 punti contro Varese. E prima ancora, andando a ritroso, la University of Wisconsin Parkside, la Hall of Fame locale, o, saltando con la macchina del tempo, i 31 punti in una singola partita con la maglia dei Dallas allenati da Dick Motta. Jeelani era uno dello starting five, capace di segnare in un ultimo quarto, il 20 dicembre 1980, 20 punti contro Denver nel 119-111 in favore della propria squadra, addirittura 21 negli ultimi 12′ allorché anche New York, La Grande Mela, dovette soccombere ai morsi del nostro (un altro 119-111).

«Aveva fisico, esplosività e una tecnica che lo ha portato a essere protagonista anche nella NBA. Giocatori così forti in Europa non arrivano più», tale è il ricordo di Valerio Bianchini.

«Abdul rimane però nei miei sogni. Ricordo che mi allenavo a nuoto nella piscina vicino e ritardavo l’entrata per vedere tutti i suoi allenamenti. Aveva un passo felpato. Strusciava i piedi sul parquet quasi avesse paura di infortunarsi il suo debole ginocchio. Un grande come nessun altro mai, in quanto ci avvicinava alla NBA che ci sembrava un pianeta irraggiungibile», così Abdul nel ricordo di un fan labronico.

«Il viaggio è stato lungo, ma con me avevo Azim. Sono contento sia venuto. Senza di lui, questo rientro mi metteva paura. Quando l’ho chiesto al presidente non ha obiettato in nessun modo, forse ha capito subito la mia emozione. A Fiumicino una sorpresa. Simone ad attendermi, un abbraccio che è un ritrovarsi, come se ci conoscessimo da sempre». Bentornato, campione.

«Non potevi dargli un metro, perché ti massacrava con un tiro da 4-5 metri assolutamente preciso. Se gli stavi addosso, usava il corpo del difensore come trampolino di lancio. Quando aveva voglia di vincere, era divino», da un blog.

«Qui mi sento a casa, spero di dare una mano a chi sta peggio. Lo sport per me è sempre stato questo, conoscere il mondo, stare con le persone, non il business». C’è tanto da fare, campione.

«Era un campione vero, io un mestierante, sono contento di non averlo mai dovuto marcare». Firmato Dino Meneghin.

Abdul Qadir Jeelani, un tempo Gary Cole, è a casa sua (son certo che il pavimento della sua abitazione è un parquet…).

«Uguaglianza, diritto al gioco, no alla discriminazione, sì all’amicizia, diritto alla comprensione», il messaggio del Progetto Colors veicolato dai e nei suoi svariati centri.

La pratica gratuita della pallacanestro, l’obiettivo di allontanare il maggior numero possibile di giovani dalle devianze. Magari, fra i tanti cui lo sport consente di ricevere finalmente giusta attenzione e opportunità, qualche campione in erba. Chi meglio di Abdul Jeelani, con la sua straordinaria parabola di sport e di vita, per rappresentare tutto ciò?

 

Alberto Figliolia

 

 

(Racconto in origine pubblicato da dailybasket.it e successivamente confluito in El folber e altri destini. Storie e avventure di sport, eBook, Gilgamesh Edizioni, 2014, 27799 KB)


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