Straniera giunge a noi la parola che forma gli umani.
Hölderlin
Il lavoro poetico consiste nel volgersi all’essenza delle cose, quella che comunemente non si vede, abbagliati come siamo dalle apparenze.
La rivoluzione che impone il lavoro poetico muove dall’arduo riconoscimento della parola poetica quale prima lingua, quale sostanza diversa da quella imposta dalla nominazione: sostanza diversa nel senso di natura più originaria, raccordata pienamente con l’essere.
La parola che entra nel processo del lavoro poetico non è frutto di tecnica, ma di rivelazione ontologica. Si fa presente senza necessità teoriche, senza orpelli. Noi osserviamo meravigliati il suo ingresso nell’ambito del pensiero, nel quale essa per natura già è.
Erra chi traspone la lingua muta delle cose nella lingua dell’uomo. Erra chi nomina.
Gettare un ponte fra le due sponde rende ancora più evidente il crepaccio che le separa, tanta è la differenza tra la lingua umana e la lingua muta delle cose.
Impone Celan: «Tacere con la parola, serbarla nello spazio dell’intervallo». Questo è il compito della poesia. Questo è il dovere di una lingua che sta diventando libera.
Ecco perché la parola poetica nega la parola “nominante”. Perché la parola nominante offusca, vela, copre. Prevale sulle cose. Le strappa dall’essere, le affida all’apparenza. Ecco perché, come registra Eraclito, «il Signore che ha l’oracolo in Delfi non dice e non nasconde, ma accenna». Facendo sì che là, dove s’interrompe l’ordine del linguaggio, parola e indicibile possano sostare, in un tenersi insieme degli opposti, nel pericolo.
Non c’è protezione per noi dove interminabilmente affiora il pericolo. Il pensiero non si placa, il naufragio non termina di compiersi. Nemmeno il familiare è una difesa di fronte al terribile “di là”, che trapassa nella nostra esistenza e ci porta alla consapevolezza della nostra finitudine.
La poesia avviene per lasciar risuonare l’eco della domanda fondamentale sul senso dell’essere e dell’esistere nel contesto angusto del divenire, senza mai trovare una risposta definitiva. Ecco perché sembra che il linguaggio, come asserisce Novalis, non esprima altro che «la propria meravigliosa natura», quella natura in grado di rendere leggibile il mondo grazie al proprio perenne fiorire. Nella parola – sia in quella pronunciata sia in quella che sempre manca – il fuoco aurorale si avverte e perdura.
Solo se la parola vive per sé potrà anche avere la forza di farsi strada e divampare e divampare ancora.
Quale prima lingua, la parola poetica custodisce il mistero dell’origine che verrà. La sua natura è appena decifrabile; ma una cosa è certa: la prima lingua non è l’inizio né il fare una volta per tutte, ma il nuovo principio di innumerevoli possibilità della nostra storia.
La prima lingua non “è”, semplicemente “parla”. Propriamente parla come tra le labbra dei sapienti della Grecia delle origini, i sophoí, i quali non pronunciavano parole proprie ma parole del logos, come svelano Eraclito e Parmenide. Parole di cui nessuno può rivendicare la paternità. E come tali adatte all’apertura dell’impossibile.
Queste parole proclamano la mancanza di ciò che nominiamo, la mancanza di ciò che non appare. Raggiungono così il centro inverificabile del verificarsi umano. Registra Hölderlin: «Straniera giunge a noi la parola che forma gli umani». È una parola che ci guida nell’esistenza autentica, una parola che prende e scuote, si solleva ed eleva al di sopra dello stato abituale, trasmuta. Parla per superare la limitazione della forma finita e per riportarci a una sfera che, nell’infinitudine delle sue possibilità, trascende quella forma perché è la forma stessa dell’essere.
La natura del lavoro poetico sta nel rimettere in gioco la verità, disincagliarla da ogni dogmatismo, esprimere un pensiero all’altezza del problema.
La nostra gratitudine per la poesia è la gratitudine per chi tanto ci ha atteso e ha conservato integro per noi il luogo della verità di ciò che siamo. Nella poesia si cela una lettura dell’esistente che ci interpella come eredità ineludibile, come radicale domanda sull’essere; tornando ad affrancarci dal mondo sovrasensibile – così come un tempo ci siamo affrancati dal mito, così come un giorno ci affrancheremo dalla tecnica –, giungendo a concepire la verità come rivelazione dell’essere. Siamo parte della verità, ma non siamo la verità. Le nostre barche sono senza governo. L’attenzione al linguaggio sul quale stiamo navigando deve farsi particolarmente vigile. Ma non si tratta di applicare rimedi e strategie formali di contenimento. Non si tratta di gettare frettolosamente un ponte sull’indefinito. Si tratta di accogliere dell’indefinito anche lo svanimento e la consunzione di ogni sostanza e di ogni senso.
Insomma nel lavoro poetico non siamo chiamati a conferire forma all’informe. Ciò che è informe va custodito come tale.
Il problema della parola è preservare il mistero dell’essere, senza pretesa alcuna di determinarne struttura e destino. Ecco dove sbagliava il mito. Ecco dove sbaglia la tecnica che del mito prosegue il lavoro, quando detta l’ordine del mondo, l’ordine della casa che abitiamo, quando toglie l’arbitrarietà dell’accadere e stende un velo sull’antiterra del pensiero.
Il problema della parola è restituire l’essere a ciò che autenticamente gli appartiene: la poesia.
»» Anterem, n. 92