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Francesco Cecchini. Italia e Iraq 
Ufficialmente annunciato che Trevi inizierà le operazioni alla diga di Mosul il prossimo agosto
(Foto Cristiano Laruffa/ LaPresse)
(Foto Cristiano Laruffa/ LaPresse) 
10 Luglio 2016
 

ITALIA.

La Camera, il 7 luglio 2016, ha approvato in via definitiva il decreto che rifinanzia le missioni militari all'estero, già approvato dal Senato lo scorso 29 giugno. Il decreto è stato convertito, quindi, dal Parlamento ed è legge. I sì sono stati 225 (Partito Democratico, innanzitutto), 71 i voti contrari (M5S, Lega e SI). È confermata, quindi, la missione italiana a protezione della diga di Mosul, per cui un emendamento del governo approvato ha stanziato altri 17,5 milioni che rafforzerà la nostra presenza militare in Iraq.

A Operation Inherent Resolve, OIR, l’intervento militare contro il Califfato, e al programma di addestramento rivolto alle Forze di Sicurezza Irachene effettuato dai Training Teams della Coalizione anti-ISIS partecipa l’Italia attraverso l’operazione Prima Parthica che vede attualmente impegnate circa 550 unità in programmi di addestramento che coinvolgono i Peshmerga curdi e le Forze irachene. In particolare, a Erbil operano unità dell’Esercito Italiano, mentre a Baghdad e Kirkuk è impiegato personale appartenente al Comando Interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) che si occupa dell’addestramento sia dei militari iracheni del Counter Terrorism Service (CTS) sia delle Forze speciali curde. Sempre a Baghdad dal giugno del 2015 opera anche un nucleo di Carabinieri di circa 90 unità, con lo scopo di addestrare i membri della Iraqi Federal Police. Il dispositivo italiano impegnato in Iraq vede anche la presenza di una Task Force dell’Aeronautica Militare, costituita da 2 velivoli a pilotaggio remoto Predator, un aereo da rifornimento KC-767 e 4 velivoli da attacco e ricognizione AMX.

Tutto questo dispositivo aereo svolge missioni di ricognizione e sorveglianza in supporto all’intero sforzo della coalizione nell’opera di contrasto allo Stato Islamico. Infine, lo sforzo italiano in Iraq sarà completato nei prossimi mesi dall’invio di un contingente composto dagli uomini e donne del Sesto Reggimento Bersaglieri di stanza a Trapani e appartenente alla Brigata Meccanizzata AOSTA a protezione dell’installazione della ditta italiana Trevi che sarà impegnata nell’opera di manutenzione della Diga di Mosul.

Tra settembre e ottobre è previsto che il contingente italiano salga fino a raggiungere circa 450/500 unità. I bersaglieri saranno equipaggiati principalmente con veicoli tattici tipo 4x4 LINCE (Light Multirole Vehicle), ma potranno contare anche su mortai e sistemi controcarro, così da poter disporre di una capacità d’ingaggio a medio raggio nei confronti di eventuali formazioni ostili.

Attualmente le forze governative sono impegnate principalmente in due aree dell’Iraq la provincia occidentale dell’Anbar e l’area di Mosul, roccaforte dello Stato Islamico dal giugno del 2014.

Il Partito Democratico in parlamento ha affermato che è prima di tutto un impegno contro terrorismo e l’Italia è attore centrale nella gestione delle crisi, a sostegno della pace e della sicurezza del Paese e di tutti i popoli. Significative le parole del capogruppo Pd nella commissione Difesa della Camera Tonino Moscatt, a giustificazione delle iniziative militari: «Il nostro Paese è un attore di primo piano e apprezzato dalla comunità internazionale sia per la qualità che per la consistenza numerica (750 a circa mille unità) del personale inviato a rafforzare le attività della coalizione internazionale di contrasto alla minaccia terroristica del Daesh, dalla protezione dell’area della grande diga di Mosul, al contrasto ai traffici di esseri umani nel Mediterraneo centrale (EUNAVFOR Med), dal potenziamento del dispositivo aeronavale di sorveglianza e di sicurezza nel Mediterraneo centrale (cosiddetta Operazione Mare Sicuro) alla presenza in Afghanistan, nei Balcani e in Libano, le nostre Forze armate rendono il nostro Paese un attore centrale nella gestione multilaterale delle crisi».

Nessun cambio di prospettiva rispetto al passato: ancora centinaia di milioni destinati a missioni armate e solo le briciole a progetti di cooperazione civile. E ancora una volta la negativa decisione di inserire in un unico provvedimento tutte le missioni militari all’estero, che invece hanno natura profondamente diversa tra loro.

Debole è stata l’opposizione in Parlamento, Senato e Camera, sia con i numeri che con le parole. E debole è nel paese un movimento che dovrebbe opporsi con energia ad avventure militari come quella in Iraq.


IRAQ.

Il Rapporto Chilcot, pubblicato nei giorni scorsi e mirante a ricostruire gli scenari e l’origine del coinvolgimento dell’esercito rappresenta un passo positivo per il chiarimento delle radici della situazione attuale in Iraq.

L’invasione degli Stati Uniti e dei suoi alleati, Regno Unito innanzitutto, ha creato un inferno: anni e anni di guerra, quasi seicentomila morti e un paese distrutto. La decisione d’invadere l’Iraq è stato un crimine di guerra, stando al diritto internazionale. Il parlamento iracheno ha chiesto al governo di denunciare il Regno Unito e i suoi alleati, Stati Uniti quindi, per l'invasione del paese nel 2003. Portavoce di questa richiesta è la deputata Alia Nassif. La deputata ha anche espresso fiducia nel fatto che la Russia sarà l'unico paese membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a sostenere questa posizione. Queste dichiarazioni di Alia Nassif sono state fatte subito dopo la pubblicazione di oggi del rapporto di una commissione d'inchiesta sull'invasione britannica dell'Iraq nel 2003, il rapporto Chilcot. La relazione critica la decisione del primo ministro britannico Tony Blair di aver aderito alla campagna militare sulla base di dati errati ed aver sottovalutato le conseguenze della decisione.

Questa posizione è in armonia con quanto ha affermato recentemente il Patriarca Caldeo Louis Raphael: «“'intervento armato a guida occidentale contro Saddam Hiussein del 2003 ha scatenato la spirale infernale in cui oggi siamo immersi. Abbiamo un Paese distrutto, quattro milioni di profughi solo dall'Iraq, conflitti che stravolgono la Siria e lo Yemen. I cristiani in Iraq prima di quella guerra erano un milione e mezzo, adesso sono meno di mezzo milione, e molti di loro vivono da rifugiati lontano dalle proprie case. Non c'è lavoro, le economie di interi Paesi sono a pezzi, le istituzioni paralizzate, patrimoni culturali millenari sono stati distrutti. Mi chiedo con quale faccia si possa dire che quella guerra ha rappresentato un bene per il Medio Oriente. Nel vuoto che si è creato i jihadisti hanno trovato spazio per far attecchire la loro proposta ideologica ancora più aberrante, quella dello Stato islamico. E viene da lì anche la deriva settaria che avvelena tutta la convivenza. Basti pensare che adesso le presunte soluzioni ai conflitti in corso puntano a cantonizzare l'Iraq e altre aree del Medio Oriente su base settaria».

 

L’inferno Iraq continua.

Dopo l’attentato che il 3 luglio scorso ha provocato nel quartiere di Karrada 290 morti, il Califfo ha rivendicato un nuovo attentato. Almeno trenta persone sono morte e altre sessanta sono rimaste ferite in una triplice esplosione al santuario sciita Sayyid Muhammad bin Ali al Hadi a Balad, a nord di Baghdad.

Dopo essersi ritirato dalla città di Falluja1 il Califfato sta cambiando tattica. Al confronto militare diretto preferisce mettere in atto attacchi terroristici suicidi. Non solo in Iraq, ma nel mondo intero, vedi Istambul e Dacca. È prevedibile che queste azioni si estendano anche a nord dell’Iraq, dove si trova la diga di Mosul.

Questo paese è caratterizzato da profondi elementi di instabilità. Il governo non solo non trova accordi con le varie opposizioni, ma all’interno della stessa coalizione vi sono importanti divergenze. Il premier Haider al-Abadi, alla guida del Paese dall’agosto del 2014, non riesce a formare un governo che dia una risposta alle richieste della popolazione sempre più vessata dalla mancanza cronica della fornitura di beni e servizi essenziali quali elettricità, acqua e prestazioni sanitarie.

Le milizie scite, appoggiate dall’Iran, di al-Baghdadi continuano a rappresentare una reale minaccia per la sicurezza del Paese. Continua a dilagare la corruzione. Inoltre vi è il comportamento politico di due leader sciiti, l’ex Primo Ministro Nuri al-Maliki e Moqtada al-Sadr. Mentre il primo, dopo aver provocato una scissione all’interno del partito Dawa (lo stesso dell’attuale premier), sta tentando di indebolire l’attuale governo sfruttando tutta la rete di gruppi di pressione e di contatti sia all’interno che all’esterno del Parlamento, Sadr (rappresentante di una delle diverse correnti sciite all’interno del panorama politico iracheno) sembra essere sempre più deciso a sfruttare il malcontento popolare per aumentare il proprio peso all’interno degli equilibri politici iracheni.

Propugnando un messaggio di forte denuncia nei confronti del Governo e, più in generale, di tutta la classe politica (accusata di essere ormai completamente in ostaggio di logiche clientelari), Sadr si è affermato in maniera dirompente come leader carismatico della protesta popolare. L’invito rivolto da Sadr alla popolazione di manifestare la propria avversione nei confronti del Governo ha portato all’inizio di maggio ad una delle più imponenti e violente manifestazioni verificatesi a Baghdad negli ultimi anni conclusasi con l’occupazione, per la prima volta, dell’area istituzionale e diplomatica della Green Zone e in particolare con l’assalto al palazzo parlamentare.

Per non parlare della posizione dei curdi che sono contro gli arabi sia sciti che sunniti. Il loro obiettivo è un Kurdistan libero e autonomo.

Il perdurare cronico dell’instabilità politica e sociale che l’Iraq vive incide negativamente anche sulle operazioni militari in corso volte a sconfiggere il Califfato, che indipendentemente da controlli territoriali, vedi Falluja, ha libertà di attacchi terroristici, vedi Karrada e Balad.

 

DIGA DI MOSUL.

In questo quadro altamente incasinato si svolgerà la rischiosa vicenda della riparazione della diga di Mosul.

L’evoluzione della situazione militare sul fronte di Mosul potrebbe avere anche delle ripercussioni sul contingente militare italiano presente nei pressi della diga, soprattutto nel caso in cui le truppe dello Stato Islamico dovessero ripiegare verso la catena dello Sinjar e il confine siriano, lungo una strada posta a circa 50 Km dalla base italiana.

Stanno entrando nel vivo sia i lavori di consolidamento della diga di Mosul da parte dell’impresa Trevi sia la missione dei militari italiani a protezione di questi.

I primi militari sono arrivati circa due mesi fa per compiere ricognizioni ed attività tecnico-logistiche. Ad oggi i militari presenti sono circa 100. Il contingente dovrebbe completarsi entro fine estate, prima dell’inizio dei lavori preannunciato dalla Trevi per settembre/ottobre, raggiungendo una quota che dovrebbe arrivare a 500 unità. Ciò, come di consueto, è legato ai dovuti passaggi parlamentari, ovvero alla legge periodica di rifinanziamento delle missioni internazionali.

Interessante è un intervista rilasciata dall’ing. Stefano Trevisani al Resto del Carlino il 20 aprile 2016 che racconta lavori e le prospettive.

Ingegner Trevisani, partiamo dalla diga di Mosul, di cui si è ampiamente scritto. Quali sono le ultime novità?

«Sono anni che seguiamo la situazione della diga, il Ministero iracheno delle risorse idriche aveva indetto una gara internazionale già nel 2009-10. L’accelerazione c’è stata a fine 2015, con questo nuovo bando per un’operazione d’urgenza di messa in sicurezza. Abbiamo trovato una convergenza e si è arrivati a chiudere il contratto con il supporto dell’esercito italiano e della coalizione, gli unici a poter fornire una adeguata cornice di sicurezza in quell’area. Abbiamo inviato i primi tecnici, ci sarà una forte attività preparatoria che si concluderà a fine estate per creare l’insediamento, poi 12 mesi di attività 24 ore su 24 che coinvolgerà 500 persone per intervenire sulle fondamenta.

L’altra operazione di manutenzione riguarderà i tunnel di scarico, che sono le valvole di sicurezza del bacino: uno infatti è bloccato. La commessa vale 280 milioni di euro. Gran parte degli interventi verrà fatta in una galleria lunga 3,5 chilometri, a circa 120 metri dalla cresta della diga, dove si opererà con tecnologie di perforazione per intercettare le fessure e tamponarle con adeguate tecnologie. A Mosul replicheremo l’esperienza guadagnata in tanti anni di lavoro con il genio militare Usa, nostro cliente dal 2001».

A ottobre 2017 la fine dei lavori, giusto?

«Sì, ma la diga avrà un soluzione permanente solo con la costruzione di una sorta di schermo protettivo, dipenderà dalle autorità irachene. Era il progetto del bando iniziale del 2009, finora mai aggiudicato. Abbiamo investito tanto in questo progetto, progettando attrezzature che non esistevano sul mercato. E oggi, con l’esperienza fatta in più di 180 interventi, ci sentiamo pronti anche per lo schermo, che potrebbe essere realizzato in 5-6 anni».

Lo scorso 2 luglio il ministro iracheno delle risorse idriche ha ufficialmente annunciato che Trevi inizierà le operazioni alla diga di Mosul il prossimo Agosto. I macchinari necessari arriveranno a giorni.

 

Francesco Cecchini

 

 

1 Falluja era una città di più di trecentomila abitanti, a meno di un’ora di auto da Baghdad, occupata dalle truppe statunitensi nell’aprile 2003. È stato il primo luogo dove le truppe americane hanno sparato a civili iracheni (che stavano protestando contro l’occupazione di una scuola superiore locale da parte della 82ª divisione aviotrasportata degli Stati Uniti). Alla fine dell’anno era in mano alla resistenza irachena agli americani.La città fu riconquistata nel novembre 2004, al costo di 95 soldati statunitensi uccisi e 560 feriti. Circa 1.350 ribelli morirono oltre a un ampio ma imprecisato numero di civili, perché l’offensiva statunitense impiegò pesanti bombardamenti d’artiglieria e munizioni al fosforo bianco. Novemila delle 39.000 abitazioni della città furono distrutte e oltre la metà fu danneggiata.

La città non è mai stata ricostruita, ma circa due terzi dei suoi abitanti ci sono ritornati prima del 2007. Nonostante i continui attacchi contro le forze d’occupazione da parte del gruppo che sarebbe diventato lo Stato islamico (Is), nel 2008 gli Stati Uniti hanno riportato Falluja sotto il controllo del governo iracheno. O sarebbe meglio dire sotto l’occupazione del governo iracheno, perché a quel punto il governo di Baghdad, sostenuto dagli Stati Uniti, era quasi interamente sciita, mentre Falluja è una città sunnita.

I ribelli sunniti hanno ripreso il controllo di Falluja nel gennaio 2014, e sei mesi dopo il resto dell’Iraq occidentale è caduto in mano alle truppe dell’Is che non hanno praticamente incontrato resistenza. Si è ripetuto il solito schema: il nuovo esercito messo in piedi dagli Stati Uniti a un costo di 26 miliardi di dollari si è semplicemente sfasciato e disperso.

La riconquista di Falluja da parte delle forze governative irachene sciite, sostenute dalle truppe iraniane e dagli attacchi aerei statunitensi, cominciò nel maggio scorso. Ci hanno messo quasi sei settimane per riconquistare la città, dove non restavano che poche decine di migliaia di civili. Molti torneranno quando sarà possibile, se non altro perché non hanno altri posti in cui andare, ma buona parte della città è un cumulo di rovine.

 

 

Altri interventi di F. Cecchini sul tema:

»» Diga di Mosul, geologia e geopolitica (Contropiano, 29/04/2016)

»» Diga di Mossul, Iraq. Soldi per andare alla guerra (Pressenza, 17/06/2016)

»» Diga di Mossul: l’Italia in Iraq (Pressenza, 03/06/2016)

»» Falluja, simbolo dei crimini di guerra americani (Pressenza, 11/06/2016)

»» Roberta Pinotti e la diga di Mossul (Pressenza, 11/06/2016)

»» Più Italia in armi in Iraq (Ancora fischia il vento, 27/06/2016)


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