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Gianfranco Cercone. “Segreti di famiglia” di Joachim Trier: una quieta disperazione
03 Luglio 2016
 

L'idea di fondo di un film – quando quel film è bello e l'idea alla base può dirsi davvero poetica – è spesso, più che una trovata narrativa, un sentimento, o una sensazione, difficile da spiegare, da razionalizzare attraverso le parole. Arriva agli spettatori attraverso i personaggi e le vicende che traggono origine da essa.

Per esempio, Segreti di famiglia, il film che il regista norvegese Joachim Trier ha girato negli Stati Uniti con un cast internazionale, racconta, come suggerisce il titolo italiano, i casi dei componenti di una famiglia americana, che potrebbero sembrarci forzatamente sommati insieme, se a tenerli intimamente uniti non ci fosse appunto un sentimento di fondo.

Si tratta di una famiglia segnata da una disgrazia recente: la morte della madre, in un incidente automobilistico, ma in odore di suicidio. Sembrerebbe allora che questo evento, questo antefatto sia il fulcro del film; che il film voglia raccontare le diverse reazioni alla disgrazia dei familiari superstiti.

Segreti di famiglia corrisponde in parte a questa descrizione. Ma tanto la morte della madre, quanto la crisi del marito e di almeno uno dei figli, che deflagra dopo la disgrazia ma che ha radici profonde e lontane, questo microcosmo di fatti e di personaggi, partecipa di una stessa sensazione, di uno stesso senso di gelo.

Intendo con questo la mancanza di empatia, di calore umano, l'incapacità di comunicare in modo autentico anche all'interno di una famiglia che si ritiene armonica, anche con chi si pretende di amare.

La donna morta nell'ambiguo incidente d'auto a cui ho accennato, era un prestigioso fotoreporter, dai luoghi di guerra, dove vivono “i dannati della terra”, paesi come l'Afghanistan o la Siria. Ma forse, all'origine del malessere che l'ha portata a uccidersi, più che i casi atroci di cui la sua professione l'ha fatta testimone, c'è la consapevolezza della difficoltà di trasmettere ai lettori occidentali il senso del dolore raffigurato, malgrado l'efficacia, la bellezza, delle sue fotografie. Perché il distacco, cristallizzato, dai nostri consimili di paesi lontani, sembra rendere impossibile anche una vera immedesimazione. Ed è la stessa imponderabile barriera per cui, nell'ambito familiare, il padre non riesce a dialogare con il figlio adolescente, chiuso in un dolore muto e ostile, tanto che quel padre, esasperato dalla frustrazione, arriva a intromettersi nei videogiochi del figlio dietro una maschera, un avatar. E quando il fratello maggiore, già adulto e sposato, solidarizza con il fratellino, dandogli consigli sulle ragazze, non riesce in effetti a trasmettergli altro che il suo cinismo e il suo pessimismo riguardo l'amore. E infatti egli tradisce la moglie con una sua ex, lasciandola credere dall'amante gravemente ammalata. Così raccontato, il film potrebbe sembrare di un moralismo forzato e ideologico. E invece il quadro di vita che offre dà sempre un grande senso di verità e di naturalezza. Ed è tutto affidato all'intelligenza, alla sensibilità dello spettatore il compito di cogliere le ragioni della quieta disperazione che l'autore evoca con maestria e che è diffusa su tutte le cose (e che si scioglie in parte soltanto sul finale, quando il film racconta dell'inizio di una storia d'amore tra due adolescenti).

Il film si avvale di un cast internazionale di alta qualità: la madre è interpretata dalla grande attrice francese Isabelle Huppert, il padre dall'inglese David Byrne, il figlio maggiore da un giovane attore americano molto bravo Jesse Eisenberg.

 

Gianfranco Cercone

(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 2 luglio 2016
»» QUI la scheda audio)


 
 
 
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