Forse ispirati dal clima estivo, due distributori italiani hanno fatto uscire nelle sale due film la cui caratteristica più evidente è la leggerezza. E tutti e due i film – per altri aspetti, molto diversi tra loro – inducono una stessa perplessità: si può essere in arte sempre e soltanto leggeri, senza essere anche irreali? La pesantezza – e ciò che la induce: come il malessere, il dolore, i conflitti – non appartengono alla vita allo stesso titolo dell'allegria, dell'amicizia spensierata, degli amori facilmente appagati, di tutti quei casi che ci danno appunto la sensazione della leggerezza?
In Tutti vogliono qualcosa – un film americano diretto da Richard Linklater, l'autore noto fra l'altro per il film Boyhood – è descritta quella particolare relazione tra uomini che si dice cameratismo.
Si racconta di un ragazzo americano, appena giunto in un college, che fa presto amicizia con i suoi compagni di università, tutti giocatori di baseball.
Il film riferisce, è vero, di certi momenti di crudeltà nell'ambito del gruppo – come i vecchi riti di iniziazione delle matricole o certe prese in giro ai danni di un compagno fatto “soggetto”.
Ma forse perché tutto il racconto è filtrato, idealizzato, dalla memoria – si svolge negli anni Ottanta – anche quei momenti sono come smussati, risultano privi di asprezza.
Quel che prevale è una sostanziale solidarietà fra i ragazzi, tutti interessati, più ancora che allo sport, a conquistare le ragazze del campus: per questo, certo, rivali fra loro, per questo abituati agli sfottò, da fare e da ricevere; ma, a ben guardare, tesi soprattutto a rafforzarsi, ognuno con l'aiuto dell'altro, ognuno rispecchiandosi nell'altro, nella propria identità maschile.
Il film di Linklater è dotato di un'autenticità e, a momenti, di una finezza, nella resa degli atteggiamenti, dei comportamenti dei personaggi, che non appartengono abitualmente alle commedie di genere goliardico.
Tuttavia, tanta uniforme allegria, pur nella molteplicità degli episodi raccontati, induce alla lunga un senso di monotonia e appunto di irrealtà.
Sembra intenzionalmente perseguire l'irrealtà Kiki e i segreti del sesso dello spagnolo Paco León. Il film contiene infatti alcuni riflessi del cinema di un grande autore surrealista spagnolo, Luis Buñuel. Ha una struttura a episodi intrecciati fra loro, nei quali i personaggi, tutti o quasi tutti, scoprono in sé una diversa anomalia sessuale. Ci sono donne che si eccitano soltanto quando vengono rapinate, altre quando il loro partner è in lacrime, altre ancora al contatto di certi tessuti. Ci sono uomini che riescono ad avere un rapporto sessuale soddisfacente con la moglie soltanto quando lei è addormentata. E poiché nessuno di loro si capacita dell'origine tanto eccentrica del suo piacere sessuale, si sentono come proiettati dal loro desiderio all'interno di un sogno. Di qui, certe atmosfere surrealistiche del racconto.
Parlo di anomalie, ma il film si fa un punto d'onore di non stigmatizzare, di non condannare, nessuna particolarità, quand'anche essa comporti la violazione della libertà del partner: è appunto il caso del marito che fa somministrare un sonnifero alla moglie per godere a sua insaputa del suo corpo.
I segreti del sesso, si suggerisce, affondano nei misteri della natura, che garantisce il piacere e la felicità a tutte le creature che si abbandonano alle sue leggi senza freni moralistici.
Ma è proprio questa ottimismo assoluto, questa mancanza del senso del dramma che appartiene anche evidentemente alla vita sessuale, che rende il film in definitiva più irreale che surrealista.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 25 giugno 2016
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