«Il luogo era delimitato da due porte che, come aveva precisato il Senato il 29 marzo 1516, sarebbero state aperte la mattina al suono della “marangona” (La campana di San Marco che dettava i ritmi dell’attività cittadina) e richiuse la sera a mezzanotte da quattro custodi cristiani, pagati dai giudei e tenuti a risiedere nel sito stesso, senza famiglia per potersi meglio dedicare all’attività di controllo. Inoltre si sarebbero dovuti realizzare due muri alti (che tuttavia non saranno mai eretti) a serrare l’area dalla parte dei rii che la avrebbero circondata, murando tutte le rive che si aprivano. Due barche del Consiglio dei Dieci con guardiani pagati dai nuovi “castellani”, circoleranno di notte nel canale intorno all’isola per garantirne la sicurezza. Il I aprile successivo, la stessa “grida” venne proclamata a Rialto e in corrispondenza dei ponti di tutte le contrade cittadine in cui risiedevano i giudei».
Organizzata in occasione del cinquecentenario dell’istituzione del Ghetto di Venezia, curata da Donatella Calabi con il coordinamento scientifico di Gabriella Belli e il contributo di un nutrito pool di studiosi, si è aperta a Venezia nella prestigiosa sede di Palazzo Ducale fino al 13 novembre 2016, la mostra “Venezia, gli ebrei e l’Europa 1516 – 2016”. L’evento intende descrivere i processi che sono alla base della nascita, della realizzazione e delle trasformazioni del primo “recinto” al mondo destinato agli ebrei.
Allo stesso tempo il percorso espositivo allarga lo sguardo, abbracciando le relazioni stabilite con il resto della città e con altri quartieri ebraici (e non solo) italiani ed europei, a sottolineare la ricchezza dei rapporti tra gli ebrei e Venezia e tra gli ebrei e la società civile, nei diversi periodi della loro lunga permanenza in laguna, in area veneta e in area europea e mediterranea.
I curatori hanno compiuto un lavoro d’indagine, non solo, sull’area specifica dei tre ghetti (Nuovo, Vecchio e Nuovissimo) ma anche hanno approfondito gli scambi culturali e linguistici, sulle abilità artigianali e sui mestieri che la comunità ebraica ha condiviso con la popolazione cristiana e le altre minoranze presenti in un centro mercantile di straordinaria rilevanza. L’arco cronologico preso in considerazione va oltre la caduta della Repubblica e l’apertura delle porte per volere di Napoleone e il ruolo degli ebrei nel corso del Novecento.
La mostra a Palazzo Ducale, accompagna il visitatore in un affascinante viaggio, tra arte, storia e cultura, illustra la distribuzione degli insediamenti ebraici in Europa dopo il 1492; l’istituzione del primo vero e proprio ghetto al mondo; il dibattito sulla sua localizzazione; la crescita e la conformazione urbana e architettonica delle successive espansioni, le relazioni con il resto della città (le botteghe realtine, il cimitero, l’escavo del Canale degli Ebrei), la reintegrazione novecentesca.
Vengono messe in luce regole ma anche divieti, abusi, conflitti e scambi; viene raccontata la società del ghetto, composta da comunità differenti tra loro per rito religioso, lingue parlate, abitudini alimentari; e poi la ricchissima produzione culturale ebraica. Accanto alla narrazione delle vicende insediative, s’intrecciano incontri con personaggi significativi, racconti di viaggio, letteratura, musica teatro.
La mostra è distribuita in 10 sezioni tematiche e cronologiche nelle sale degli appartamenti del Doge: La Venezia cosmopolita, Il Ghetto cosmopolita, Le sinagoghe, Cultura ebraica e figura femminile, I commerci tra XVII e XVIII secolo, Napoleone: l’apertura dei cancelli e l’assimilazione, Il mercante di Venezia, Collezioni, collezionisti, Il XX secolo – l’esposizione è corredata da apparati multimediali e innovative tecnologie di grande suggestione, elaborate da Studio Azzurro.
Il richiamo evocativo al “getto” di rame e alla fonderia esistente a Canareggio prima del recinto degli ebrei – da cui sarebbe derivato anche il toponimo “ghetto” – apre il percorso della mostra, che prosegue con la visualizzazione dei flussi migratori ebraici in Europa, dopo la cacciata dalla Spagna e dal Portogallo, e con un focus sulla presenza d’insediamenti ebraici in Veneto, a Venezia (in particolare nell’area centrale e in quella mercantile) e a Mestre. A Rialto un gruppo di giudei nel 1515 aveva anche acquistato una serie di botteghe: il cuor degli affari lagunari era al tempo vivacissimo e la ricostruzione in mostra del ponte di Rialto – ancora apribile nel mezzo per il passaggio delle imbarcazioni – e degli affollati spazi di scambio eretti dopo il grande incendio del 1514 è di grande effetto.
Agli splendidi teleri di Vittore Carpaccio realizzati per la Scuola degli albanesi – la Predica di Santo Stefano proveniente dal Musée du Louvre e la Presentazione di Maria al tempio dalla Pinacoteca di Brera che accompagnano il visitatore, è affidato il compito d’evidenziare la variegata compresenza in città, tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento, di svariate nazionali, etniche e religiose nel contesto urbano: cristiani, turchi e anche un componente della Comunità ebraica, raffigurato con il copricapo nero e la lunga barba. Insieme alla visione ecumenica di una città cosmopolita, la pittura in questo scorcio di secolo non manca di registrare anche sintomi di una discrasia di fondo, con l’affermarsi di un’iconografia antisemita: nell’Ebrezza di Noè di Giovanni Bellini e nell’Ecce Homo di Quentin Metsys la fisognomica ebraica si trasforma in grottesca e fortemente caricaturale.
Nel campo dell’editoria, Venezia divenne la fucina dei modelli tipografici già alla fine del Quattrocento, con Aldo Manuzio, con significativi esperimenti in ebraico già nella piccola grammatica l’Introductio pervebris ad Hebraicam linguam da lui pubblicata. Fu però Daniel Bomberg, imprenditore fiammingo, a trasformare la città in centro d’eccellenza nel settore. L’era di Bomberg si chiude nella metà del Cinquecento con la rivalità fra due tipografi veneziani Marc’Antonio Giustiniani e Alvise Bragadin, con la bolla papale che portò al rogo dei talmud del 1553: tutto testimoniato nel percorso espositivo.
Le strutture abitative all’interno del Ghetto, lo sviluppo urbano e sociale e i suoi ampliamenti successivi, l’illustrazione delle cinque sinagoghe e delle yeshivot sono un altro aspetto toccato nell’esposizione.
La figura femminile nella società ebraica del tempo ebbe un ruolo tutt’altro che secondario: alcuni contratti matrimoniali (ketubbot) acquarellati e qualche tessuto di grande raffinatezza accennano alla vita quotidiana, ma poi la figura di una donna del tutto eccezionale, come Sara Copio Sullam, emerge con i suoi scritti e l’intenso rapporto intellettuale con Leon Modena.
Quindi l’arrivo di Napoleone nel 1797, con la caduta della Repubblica, l’eliminazione delle porte del “recinto” bruciate nel campo del Ghetto Nuovo, l’assimilazione dei giudei nella società civile e la presa d’atto da parte della municipilità dello stato di degrado di un’area periferica da sempre trascurata dal punto di vista della manutenzione edilizia.
Il XIX secolo è scandito dal ritorno degli ebrei a pieno titolo in città e nella società.
Un progresso di integrazione che continua anche nel Novecento – prima di ripiombare nel buio delle coscienze – legato soprattutto al mondo delle arti (significativo il ruolo di Margherita Sarfatti nel promuovere il Gruppo Novecento).
Mentre alcune opere d’arte di grande impatto, quali il ritratto di Letizia Pesaro Maurogonato – lucida testimone delle inquietudini politiche degli ultimi decenni del XIX secolo a Venezia, dipinto da Giacomo Balla nel 1901, sono testimonianza evidenti della partecipazione degli ebrei alla vita artistica, che nel 1928 volle acquistare dalla Biennale di Venezia per le collezioni della Galleria Internazionale d’Arte Moderna di Ca’ Pesaro lo splendido Rabbino di Vitebisk di Marc Chagall.
Sappiamo bene che questo processo è poi stato bruscamente interrotto dalla cacciata degli ebrei dalle scuole, dalle cariche pubbliche, dagli uffici e, soprattutto, delle deportazioni. Il filo di speranza che ha dato la riapertura di tre delle cinque antiche sinagoghe, le riunioni nella sala Montefiore delle associazioni, la ricostruzione della Comunità ebraica subito dopo la Liberazione chiudono la mostra, senza tuttavia che quanto avvenuto a Venezia durante al fascismo possa essere dimenticato.
Maria Paola Forlani