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Girasoli di mare a Macerata 
Renato Pasqualetti legge Patrizia Garofalo
20 Giugno 2016
 

Così iniziai una presentazione di un libro di Patrizia Garofalo, che per farvela conoscere mi sento di rileggere, intrecciando alla stessa pensieri di oggi.

Patrizia Garofalo ha studiato, con me che non studiavo, al Liceo Classico “Leopardi” di Macerata, dove si è legata con un affetto profondo e una relazione importante alla sua professoressa, che ahimè non c’è più, Jader Pojaghi, per noi tutti: Jaja. È stato quando i professori non erano prof e “perché” si scriveva per esteso e non con una x seguita da un ché.

S’innamorò fin dal liceo della parola e del verso, della poesia insomma, tanto che continuò gli studi delle lettere classiche all’Università di Urbino, dove si è laureata con una tesi su D’Annunzio: il “vate grammofono” come irriverentemente lo battezzò mio fratello Dino Campana, il poeta errabondo di Marradi.

Era una ragazza simpatica, miope e un po’ ansiosa. Era una bella ragazza che fiorì presto in una donna bella.

Nel 1968 prendemmo la maturità classica insieme. A pochi giorni dall’esame facemmo una festa da ballo, come si chiamavano allora, a casa sua. Si ballava al suono di Azzurro cantata da Celentano e de La Bambola di Patty Pravo. Ricordo che faceva molto caldo e che Patrizia era molto più alta di me e che a ballarci mi metteva in imbarazzo.

Così, come dicevo, introdussi una presentazione al suo libro Dare voce al silenzio nel 2008.

Chissà se dai banchi del liceo nel cuore degli anni ’60 avremmo potuto prevedere tutto questo, noi, una generazione che ha vissuto senza guerre e che se non ha avuto tutto come chiedeva, ha avuto molto…? Chissà se Patrizia, giovane liceale, assieme a me, mentre ci scambiavamo parole a volte addirittura troppo lievi con penne, fucile ed occhiali avrebbe mai pensato a questo cambiamento del mare: da luogo azzurro di dolci amori giovanili a infinita dstesa di liquido dolore del colore del sangue…?

È una pace che non verrà

Desideri smarriti naufragano

Dentro un gorgo d’odio

Si addensa fitta nebbia

Tra corpi lacerati

Il tempo è mutato e ha mutato le parole e i versi per quelli che fanno poesia con i piedi e con il cuore ben piantati nel mondo. Per quelli come Patrizia Garofalo, poetessa, che con questa raccolta conferma e accresce la sua dimensione militante di una poesia civile, che ci mostra il mondo con tormentato realismo e c’invita a riflettere.

Diceva un mio amico vetero marxista che è solo la poesia civile quella che conta, anzi è l’unica ad essere poesia. Io non lo penso, ma certo dare voce al silenzio è un compito di assoluto valore. Far riflettere, arrivare al cuore e alla mente della gente è missione importante del poeta, scritta per cambiare le cose, per non abbandonare lo spirito critico, la capacità di vivere la vita consapevolmente.  

Le bambole che non si pettinano (1992) sono ormai donne e assieme a uomini e fanciulli sono bagnate di sangue e i versi dei Girasoli di mare (… ma che titolo bellissimo!) sono/appaiono una sintesi in poesia dell’umanità sofferente.

Più tardi Patrizia partì per Roma, dove nacquero i suoi figli, e poi andò a Ferrara ad insegnare sul delta del Po, un avanti e indietro di una giovane professoressa che aveva il registro in borsa e la poesia nel cuore.

A Macerata, presentammo il suo secondo libro di poesie: Le bambole non si pettinano, che era seguito al primo, Ipotesi di donna del 1986. Le prefazioni ai due libri entrambe importanti: di Giorgio Caproni la prima e di don Franco Patruno, direttore della Fondazione Cini, la seconda.

Poi altri due libri: Terra di nomadi e Mare d’anime con la prefazione di Paolo Ruffilli, dove si trovano anche testi in prosa. Poi il bellissimo Dare voce al silenzio dove compaiono versi che, come quelli di Girasoli di mare, raccontano in poesia una visione realistica degli avvenimenti di questo inizio di millennio. E ancora Il Dio dell’impossibile e Oasi criptate.

Patrizia ha anche scritto sceneggiature per Teatro e ha presentato scritti tra altri di Gordiano Lupi, Angelo Andreotti e Paolo Ruffilli e ha studiato Antonia Pozzi, una poetessa che ama profondamente, e ha parlato di lei in un’importante conferenza a Ferrara.

L’assessorato alla Cultura di quella città, di Ferrara l’ha posta tra i poeti ferraresi dell’ultimo millennio, malgrado lei si dichiari una donna senza terra.

Ci vediamo con Patrizia appena un mese fa e lei mi lascia in mano questo suo libro scritto con lo sguardo attonito e smarrito del testimone, che in greco si traduce “martir”.

Lo presenterai tu a Recanati a maggio e a Macerata a giugno…”

Non sono assolutamente in grado” dico, e penso anche: “Sono troppo coinvolto col rischio d’essere partigiano…”, ma oppongo una debole resistenza, come altro non può fare chi ha intrecciato sogni e gioventù.

So che per questo mi perdonerete se ciò che dirò delle sue poesie non avrà il distacco e la professionalità del critico, ma soprattutto il suono dell’affetto.

E così eccomi qui a parlare di una raccolta di versi più grande di me, anche se la barca di questo mio viaggio è senz’altro più lieve di quelle che abitano il libro di Patrizia.

 

L’inizio del libro narra di un accoglimento su assi ritorte di una baracca, di una nascita sofferta, di un parto verso una terra promessa, l’inizio di una lunga traversata per mare

Vorrei, figlio mio

tu sapessi….

 

E ti partorii

Per una terra promessa.

Terra promessa, terra lontana, irrangiungibile a causa di barriere crudeli erette da uomini senza pietà, senza capacità d’accoglimento.

Sapete, come Patrizia sa, che alcune donne dei tanti Paesi disperati del mondo, che non hanno soldi a sufficienza per fuggire da guerre e fame imbarcano i loro figli su scafi insicuri e li abbandonano a un destino incerto e spesso crudele? Figli soli abbandonati con una lacerazione profonda che scava l’anima, che noi addirittura non riusciamo neppure a intuire, perché non percepiamo, al sicuro nei nostri maglioni di cachemir, la vita come orrore certo. Madri che restano sul bagnasciuga con gli occhi colmi di lacrime, con bocche asciutte che non potranno più chiedere quello che ogni madre vuole sapere da suo figlio: “Sei felice?”.

Pietosa onda

Asciuga gli occhi del mare

Chè non bruci

All’arsura inquieta

Del distacco.

Con i versi di Girasoli di mare (parole inzuppate di sangue…) si comincia un viaggio per mare, che è anche una morte per acqua (una corrente sottomarina gli spolpò gli ossi in sussurri... dice il poeta), un viaggio che avanza nel buio dei fondali, in asfissia di luce… e finisce con la scoperta di girasoli di mare.

Durante il viaggio Patrizia osserva, si duole, si strazia e strazia le parole ugualmente intrise di dolore e ci mostra le immagini in quella che lei mirabilmente rimanda a la logorata trama del nostro niente di Italo Calvino.

Nel viaggio si fanno i primi incontri, particolari e strani. S’incontrano i cecchini russi e cominciano i versi rapidi di una sola parola o addirittura di una sola “e”, versi veloci e crepitanti come il rumore delle pallottole, versi brevissimi e intensi.

Eravamo con voi di notte

Sui tetti

Sparavate alla bocca

Schizzavano mani

Che volevano proteggere almeno il cuore

Chè morisse intero

sentivamo caricare armi

In una roulette russa

che non era russa ma sapeva di gulag

O un incontro eccezionale e ironico con un uomo/personaggio che sembra affatto decontestualizzato dal resto delle poesie, capitato lì quasi per caso, malinconico ma ‘stavolta non crudele. Vestito di bianco e con alle spalle le note del right time

Un uomo nero vestito di bianco

Poggiato ad una chiave di violino

Volavano note

Ganci senza musica

……

Bianco di neve

Nero di pelle

Poi attraverso i versi si inizia a seguire la rotta, ineluttabile e crudele. Partecipazione emotiva; passione civile piena e convinta. E appare giusto e vero quello che scrive l’editore Rebecchi parlando di questo libro:

Ho incontrato immagini dure, forti che, comunque, non perdono il gusto elegante e raffinato in grado di offrire un sottile brivido, una decisa suggestione, uno speciale incantamento.

Critici di mestiere parlerebbero di stile maturo; infatti con sicurezza Garofalo sviluppa e padroneggia i suoi versi lontani dalla metrica che emettono il suono migliore nel loro insieme, anche se di quando in quando un verso, soprattutto alla fine di una poesia, arriva a concludere all’improvviso, quasi a imbuto, un’emozione o un pensiero.

I peccati attendono sempre d’essere vestiti d’amore.

Ma a me, profano, i versi di questa raccolta sembrano a volte anche percorsi e formati dal momentaneo stato d’animo dell’autrice. Più lenti a volte, riflessivi; più improvvisi e scattanti quasi dettati dalla rabbia, dalla contrarietà.

Costante, invece, è la scelta ricercata e raffinata dei termini, anche se mai eccessiva o fastidiosa.

È una pace che non verrà

Desideri smarriti naufragano

Dentro un gorgo d’odio

Si addensa fitta nebbia

Tra corpi lacerati.

Gli accadimenti e i pensieri si esprimono in versi, ma si fanno coscienza e passione civile, consapevolezza storica. Cresce in Patrizia e nei suoi dolori poetici sempre più la visione nitida delle sofferenze dei migranti.

Cosa resterà nella memoria mi chiedo, leggendo i suoi versi che fanno pensare, di questa grande vergogna? Cosa resterà del non aver saputo accogliere e salvare migliaia di persone aggrappate a barche e scafi? Ci sapremo commuovere un giorno per un bambino vestito di rosso tratto a braccia dai morti o saremo lacerati dalla vergogna per sempre? Cosa resterà nella mente nostra e dei nostri figli della mattanza? Cosa resterà di fanciulli, donne e uomini trattati e percossi come pesci nelle tonnare? Dei lutti della storia.

La nostra terra è impastata più di morti che di vivi

Come dice Patrizia in un verso lapidario, che spegne il piagnisteo delle televisioni ed apre il cuore e la mente.

I suoi versi sembrano dire di un mondo irrimediabilmente mutato dove prevale un trasversale pessimismo, annunciato, ad esempio, con il fatto che gli uccelli del buon augurio sono sostituiti da quelli del malaugurio.

Gabbiani

Affamati

Disegnano

Lente spirali

Sopra tetti grigi. /

Non torneranno più le rondini.

E mentre viaggiavo con il cuore gonfio per queste rotte amare, improvviso mi è apparso un canto che dona una possibilità di salvezza. Una poesia che forse immersa tra le altre può non venire in evidenza, quasi uno sbarco salvifico, un arrivo in un porto sicuro, che in tanta disperazione semina la speranza, rallegra il cuore come una ginestra che spunta da una pietra vulcanica.

S’allarga di sole

Il pensiero del mare.

Rifrazioni di luce

I miei passi.

Trascolora la guerra

Nei campi di grano.

Il mare così disperato di uomini in fuga, di donne affogate, di vite bambine spezzate per la prima volta è irradiato dal sole. La visione realistica e a volte spietata nei versi di Girasoli di mare per la prima volta sembra scrutare un paesaggio diverso, che rende ancora più forte l’originalità del testo poetico nato dalla capacità dell’autrice di ascoltare e di vedere ciò che non è possibile non ascoltare e non vedere.

E questo mi guida a un’interpretazione mia dei Girasoli di Mare, dell’ultima poesia di questa bellissima plaquette.

Girasoli di mare

Senza rifugio

Radicati negli abissi

Il buio dei fondali

Trattiene gli ultimi fiati

In asfissia

Di luce.

Certo si possono vedere anche corpi trattenuti nel gelido buio dei fondali, ma io con uno slancio verso autentiche speranze vedo anche il colore dei girasoli, le magnifiche corolle gialle che girano alla ricerca del sole e che lo incontrano nella meravigliosa casualità della natura, spandendo intorno una nuova luce. Vivida. Gialla.

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La raccolta di poesie Girasoli di mare, di Patrizia Garofalo, è uno sguardo partecipe e attonito, di fronte alla tragedia delle morti in mare dei migranti. Anzi, più che di fronte, bisognerebbe dire direttamente da. È, infatti, compartecipazione pura, senza necessità di un commento o di una narrazione esterna, quella che ci propongono i versi dell’autrice, poiché non possono essere di spettatrice i versi di chi intenda far posto nell’anima, prima ancora che nella penna, all’indicibile sofferenza di quest’ormai quotidiano stillicidio di vite.

La voce poetica diviene, quindi, protagonista e chiama in causa ognuno di noi, ad ognuno chiedendo di riconoscersi tali. Protagonisti, in quanto esseri umani, appartenenti al consesso umano, cosa che dovrebbe intrinsecamente farci sentire in profonda sintonia con ciascun migrante, con ognuno di questi girasoli di mare, la cui struggente e ingiusta parabola è troppo spesso destinata ad iniziare e finire con una tragedia.

Il mare si tinge di mattanza, scrive Garofalo; il concetto è duro quanto realistico, è disturbante, ci riporta le immagini di una tonnara, del sangue, della morte, attorniata dal tutto che è la vastità del mare e dal niente che sono le nostre quotidiane indifferenze, la logorata trama del nostro niente.

Per i migranti la prospettiva nell’abbandonare tutto ciò che è vita reale, ancorché tremenda fino all’attimo prima di imbarcarsi, è dapprima quella della speranza, ma presto diviene quella di un esilio che s’abbevera di sabbia, sassi e sangue, inghiottito dalla nostalgia, che brucia anche le radici delle proprie esistenze. E resta solo un sudario di stelle.

C’è tanta luce, nella raccolta di Patrizia Garofalo, ma è il ricordo della luce, solo il suo ricordo.

Niente è consolatorio, perché la storia non lo è: un cielo rosso di notte brucia la storia. Non si sta andando nella giusta direzione e perfino il vento ci ammonisce: l’avvertimento del vento giunge da lontano. Pare annunciar tregende…

Ci sono ombre nomadi, deserte luci… arrampica il vuoto la luce/ cerca il respiro del cielo. E in cielo nessun sole perché il sole è morto.

L’autrice si palesa con delicatezza, come testimone di quel che accade. Scrive della fatica di trovar parole, infatti le parole sono perse, cancellate prima del dire, oppure si divincolano, cercano respiro. E quand’anche la parola si compie, anche la parola svelata, perfino quella di Dio, si avverte come deserto… E allora non rimane che affidare al silenzio un supplemento d’anima.

Leggendo queste poesie, lasciamole entrare dentro di noi fino a scuoterci, a rimuoverci da una posizione quasi indegna, perché in-decente è il nostro assistere, sapere e non agire, nei confronti di questa piaga dei nostri tempi.

Anche la nostra vita dovrebbe sentire di annaspare a strappare l’ombra, dovrebbe prendere consapevolezza di come quelle stelle di vetro, quei girasoli, quei fili agugliati siano intersecati a noi, che agugliati siamo, anche nostro malgrado, tutti noi viventi, intersecati insieme, qui ed ora.

 

Renato Pasqualetti

a Macerata, Sabato 18 Giugno 2016


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