Un tempo l'estate era un momento in cui nelle sale cinematografiche venivano riproposti alcuni classici di successo della storia del cinema. Oggi, per varie ragioni, non accade quasi più. È dunque una lodevole eccezione l'iniziativa della casa di distribuzione Cinema, di Valerio De Paolis, di far riuscire nelle sale un classico del cinema hollywoodiano – un musical degli anni Cinquanta: Un americano a Parigi diretto da Vincent Minnelli.
Quand'è che un film è davvero un classico?
Io credo, quando quel film cattura una verità umana, che proprio perché è una verità, è riconosciuta tale anche dagli spettatori di generazioni, di epoche successive.
Evocare la categoria della verità a proposito di questo film di Minnelli può sembrare inappropriato. Come preannuncia il titolo, la storia si svolge a Parigi, ed è la Parigi più convenzionale, più da cartolina, idealizzata dall'esotismo più corrivo. Ci sono le caratteristiche mansarde abitate da artisti e pittori, le stradine del quartiere di Montmartre dove quei pittori esibiscono e vendono i loro quadri; ci sono gli eleganti café con i tavolini all'aperto; c'è il lungosenna sotto il chiaro di luna, usato per gli appuntamenti degli innamorati. C'è, almeno in apparenza, la joie de vivre, quella particolare euforia di chi si trova a vivere una vacanza – nel caso del film, una prolungata vacanza – in uno dei luoghi turistici ritenuti più belli del mondo.
Ma questa falsità così marchiana, tanto dei luoghi quanto dei sentimenti – che costituisce comunque una festa per gli occhi e per lo spirito, corroborata da citazioni a piene mani delle tale dei grandi impressionisti francesi – contrasta con una verità segreta e dolorosa.
Si immagini la vetrina colorata e scintillante di un negozio, all'interno del quale, per un attimo, si apre la porticina del retrobottega, che dischiude un ambiente oscuro, caotico e squallido.
L'oscurità del retrobottega corrisponde al lato oscuro dei personaggi del racconto, ognuno dei quali cova una pena segreta, difficile da indovinare a prima vista dietro il loro aspetto smagliante. Sono: un pittore americano che dopo la guerra si è rifugiato a Parigi, alla ricerca di un'ispirazione e di un successo che quanto pare non sono mai arrivati; un suo compatriota, musicista, che dissipa il suo probabile talento trascinando le giornate nell'accidia; un artista di varietà francese, perdutamente innamorato di una ragazza più giovane di lui, che non lo ama, che prova per lui soltanto gratitudine per averla egli mantenuta e protetta durante la guerra.
Insomma: è racchiuso nel film un piccolo inferno di sentimenti e di passione, sul quale Minnelli getta una luce cruda e spregiudicata. Appartiene all'ambiente artistico – o degli artisti sedicenti, aspiranti tali – dove alligna la frustrazione, che rende a volte meschini (di qui, per esempio, il cinismo, il disprezzo con cui il pittore della domenica tratta una signora americana dell'alta società che, pateticamente, vorrebbe comprare il suo amore facendo opera di mecenatismo a suo favore, quasi che egli fosse un gigolò).
E a volte i canti e i balletti che inframmezzano e concludono il racconto sono cassa di risonanza ai sogni di gloria di chi li ritiene ormai irrealizzabili; o al dolore lancinante, che diventa ossessione, per la perdita della persona amata.
Il film, che vinse sei Oscar, si avvale delle interpretazioni, fra gli altri, di Gene Kelly e di Leslie Caron; e delle musiche, celebri più del film, di un grande compositore americano, George Gershwin.
Gianfranco Cercone
(Trascrizione della puntata di “Cinema e cinema”
trasmessa da Radio Radicale il 18 giugno 2016
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