Catherine Dunne
La metà di niente
Taduzione di Eva Kampmann
TEA, 2016, pp. 300, € 10,00
Pensare di essere una famiglia felice fino alle otto di una mattina di aprile e cinque minuti dopo ascoltare dalla bocca del marito la notizia, data al momento di uscire, che lui non ti ama più e se ne va per un po’ di tempo -destinazione sconosciuta- prima di decidere sul futuro, sono due elementi inconciliabili nel pensiero di Rose. Irlanda metà anni novanta. Lei si è sposata giovanissima convinta di ripercorrere l’esperienza matrimoniale felice della madre, fiduciosa nelle qualità decisionali di Ben e nelle prospettive di vita che le offre. Tre figli, la perdita drammatica di un neonato, comunque una quotidianità serena, con impegno e cura costanti per la famiglia. Rose accetta di fare la madre a tempo pieno, ma allo stesso tempo, essendo in Società con il marito, gli è di grande aiuto nella gestione delle relazioni di lavoro, senza comunque scendere negli aspetti concreti e negli affari.
Poi la solitudine improvvisa, la necessità di non traumatizzare i figli -il più grande, diciassettenne, diventa la sua spalla- l’iniziale ribellione di uno di loro, più piccolo e fortemente attaccato al padre, la scoperta che la Società ha uno scoperto spaventoso, la lotta per far bastare i pochi soldi rimasti. Insieme alla necessità di accettare la presenza di un’altra donna nella vita e nei progetti di lui.
Rose, strappata via di brutto da un mondo da spot pubblicitario, deve attingere alle sue capacità personali di creatività per portare a casa qualche entrata con enorme sacrificio. Uscita per necessità da un isolamento che non era stata una sua scelta, riscopre la forza dell’amicizia, la collaborazione tra donne, la comprensione.
Ne esce una figura vincente che niente perde della sua sensibilità e attenzione di madre, ma che impara a muoversi ed agire con determinazione, fidandosi delle persone giuste, cercando di tutelare esclusivamente i diritti dei figli. Lui, Ben, da cui Rose è stata affascinata e dal quale derivava ogni sicurezza nonché ogni decisione, si rivela incapace di prendersi delle responsabilità, una figura che si fa tanto più meschina quanto più la figura della moglie acquista vigore. La donna abbandonata, dopo lo sbigottimento e il dolore, scopre piano piano di essere capace di guidare una famiglia da sola, di poter finalmente sfogare la sua rabbia incontrollata, di poter gridare in faccia al marito anche le parole più volgari e offensive, fuori dal perbenismo borghese che lui aveva sempre preteso in famiglia.
Della situazione di benessere economico precedente non è rimasto nulla, non c’è niente da dividere a metà. Ma lei si sente diversa ed è contenta di sé, una adulta nuova.
Storia dalla struttura coinvolgente, niente affatto da limitare al contesto ed agli anni in cui la scrittrice irlandese la colloca, ma che può essere estesa alla donna in tante famiglie moderne, là dove ancora la moglie è abituata o costretta e dire solo di sì, senza possibilità di far sentire la sua voce. E non è facile per tali donne avere la forza e la determinazione che Rose ha scoperto suo malgrado.
Marisa Cecchetti