Molte sono le forme del divino
molte cose gli dèi compiono
contro le nostre speranze
e quello che si aspettava
non si verificò
a quello che non ci si aspettava
diede compimento il dio...
(dal coro)
Euripide, Alcesti,
trad. di Guido Paduano
La vita che torna nell’Alcesti di Euripide fa rivivere sulla scena del Teatro greco di Siracusa – nel 52° 'ciclo di spettacoli classici' – tutto il dramma della morte che attanaglia la vita dell’uomo.
Dramma denso di interrogativi, implicanti anche la metafisica, e a cui però la cultura e la filosofia in particolare non hanno saputo mai dare risposte del tutto convincenti.
Il regista, Cesare Lievi, ha voluto dare a una delle più nere favole che l’antichità abbia prodotto un tocco nuovo ricorrendo alla religione e aprendo lo spettacolo con un corteo funebre simile a quello che poteva scorgersi nel film Divorzio all'italiana di Pietro Germi, con banda musicale, feretro sulle spalle, prelati e chierici dietro e poi una lunga processione nera di uomini con coppole e donne ammantate di nero.
Un omaggio alla Sicilia e alle consuetudini di questa terra.
Luigi Perego, curatore della scenografia e dei costumi, ha sintetizzato la reggia del re Admeto come lo scheletro d'un palazzo laccato di rosso, col piano superiore in vista diviso in più scomparti o siparietti chiusi da tendaggi neri e con tre larghi scivoli/pedane che declinano verso l'orchestra occupata tutt'intorno da un fiorire di migliaia di papaveri rossi, simboleggianti, forse, la consolazione.
Alcesti, interpretata da Galatea Ranzi, si presenta in tutta la sua affascinante femminilità e dolcezza intessuta di fedeltà al marito Admeto, il re della Tessaglia, e di amore per la famiglia, per la reggia, i servi.
Ispirata ad un mito di cui si narra anche nel Simposio di Platone, la tragedia mette in scena una storia d’amore e di morte: Admeto ottiene da Apollo la possibilità di sfuggire alla morte a patto che un altro si sacrifichi al posto suo. A dare la vita per lui non sono i vecchi genitori, né gli amici più fidati, ma la giovane moglie Alcesti che con estremo dono di sé dimostra la forza di una passione capace di andare oltre la morte.
Molto coinvolgente ed emozionante la scena in cui Alcesti pronuncia le sue ultime parole: saluta la luce del sole, compiange se stessa, accusa i suoceri, che egoisticamente non hanno voluto sacrificarsi, consola il marito e infine muore.
Nel frattempo giunge a palazzo Eracle, per chiedere ospitalità. Admeto lo accoglie con generosità, pur non nascondendogli la propria afflizione, tanto da essere costretto a spiegargliene il motivo. Racconta all’eroe che è morta una donna che viveva nella casa, ma non era consanguinea, così da non metterlo a disagio, pur nascondendo, in qualche modo, la verità dei fatti. Sarà l’intervento di un servo a rivelare ad Eracle la vera identità della la donna “non consanguinea” morta. L’eroe, fortemente pentito, decide così di andare all’Ade per riportarla in vita. Eracle ritorna da Admeto con una donna velata, fingendo di averla “vinta” ai giochi pubblici, per mettere alla prova la sua fedeltà. Admeto, inizialmente, ha quasi orrore a toccarla, convinto che sia un’altra, e acconsente a guardarla solo per compiacere il suo ospite. Tolto il velo, si scopre che la donna è Alcesti, ora restituita all’affetto dei suoi cari. Eracle spiega ad Admeto, che alla donna non è consentito parlare per tre giorni, il tempo necessario per essere “sconsacrata” agli inferi.
Il regista Cesare Lievi – come si deduce – non si è scostato dal testo originale anche se ha voluto dare un senso nuovo al ritorno in vita della protagonista: per tutta la durata del dramma, infatti, la croce di Cristo è rimasta poggiata sul lato destro della scena come un chiaro riferimento alla resurrezione di Alcesti. Il concetto di Resurrezione, in realtà, allora era tutto da venire e forzare la mano ad Euripide, forse, come qualcuno ha notato, è stato arbitrario.
Il pensiero di Euripide in realtà è molto chiaro, nel quarto stasimo, dove appunto, rivela che la Necessità, la dea invincibile, è tale perchè tutto ciò che è necessario è inevitabile e razionale.
Un dramma che apre a diverse riflessioni (tutte personali!) e, in ogni caso, rimanda al mito greco della Speranza, la dea che resta tra gli uomini, a consolarli, anche quando tutti gli altri dèi abbandonano la terra per l’Olimpo.
Scenografico l’incontro iniziale tra Thanatos, dio della Morte, interpretato da Pietro Montandon di nero vestito e dal volto imbiancato che s'incontra con il dio Apollo, Massimo Nicolini, tutto dorato e con arco e faretra.
Bravissimi tutti gli attori: da Eracle, un ironico e leale Stefano Santospago, ad Admeto, interpretato da Danilo Nigrelli, al padre Ferete, Paolo Graziosi campione di dialettica.
Insuperabili anche Ludovica Modugno, l'Ancella, Sergio Basile e Mauro Marino, nel ruolo del Corifeo.
Giuseppina Rando