Più di tutto mi sproni, in questa
sovietica allegria cubana:
al rigore dell’inverno organizzato
in stanze da formicaio, divise per necessità
e argomento, unisci il baricentro
della cicala sbilanciata su
perizomi ed equatori d’ombelico,
e non è molto che io perda a mia volta
il gravicentro se moltiplichi un’anca e poi
una spalla, la linea della schiena tòrta come
punto di domanda,
fino a farmi considerare l’ipotesi
che la danza non sia altro che
l’origine e la destinazione
di ogni movimento tellurico.
“Ma non è che mi diverto, ne ho il terrore.
A un certo punto non riuscivo nemmeno
a urlare”. Era il richiamo della giostra
a farti paura, e non la forza
centrifuga unita alla distanza da terra,
per quanto per non pensare a niente
basterebbe metterci sopra un letto
di foglie umide di bambù, a respirare
imitando il via vai del bagnasciuga
e il verso dell’acciuga quando
richiama e si unisce
alle nuvole di burro.
Gianluca Moro
(giantropomorfo, 20 maggio 2016)