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Maria G. Di Rienzo. Amministrazioni “rottamate”
grr!
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25 Maggio 2016
 

Se qualcuno si chiedesse cos’è stato più faticoso, per me, in questi giorni di trasloco e sistemazione della nuova casa, potrebbe ipotizzare che fare tre piani di scale in salita corredata di scatoloni pesanti e voluminosi al punto di impedirmi di vedere le scale suddette ottenga facilmente la palma della vittoria. Invece no. L’impegno più arduo è stato restare una persona civile negli uffici pubblici.

Poiché ho passato parecchi anni dall’altra parte dello sportello, per così dire, ho mantenuto a lungo un’attitudine di paziente comprensione per gli errori, le lungaggini e persino per la maleducazione che sono costretta a maneggiare quale utente. Quest’ultima mi vede come bersaglio privilegiato, giacché per l’impiegato del settore pubblico di turno è impossibile non notare immediatamente che sono vecchia, povera e non rispondente agli standard vigenti della “femminilità ladylike”.

L’individuo suddetto – maschio o femmina – è purtroppo più spesso che no incline a manifestare un’ottusa superficiale arroganza che dovrebbe segnalarne il ruolo, per cui traduce tali dati come “inferiorità”: una sorta di salvacondotto per qualsiasi cazzata gli venga in mente di operare nei miei confronti. Per esempio:

1) Mi dà del “tu” anche se ha trent’anni meno di me e non ci siamo mai visti prima;

2) Mi parla in dialetto (lo capisco e se voglio lo parlo, ma sulla carta d’identità che sto sciorinando sta scritto che sono nata in un’altra regione e che di mestiere faccio la scrittrice: non è abbastanza per supporre che io sappia l’italiano in misura sufficiente a intendere quel che mi viene detto?);

3) Modula quanto ha da dire in un’infastidita – e fastidiosa – lentezza, presumendo che il Q.I. di una persona si elevi e crolli in rapporto a quanti euro ha in tasca;

4) Dà per scontato che io sia lì per truffare in qualche modo l’amministrazione per cui lavora e mi segnala che “a lui/lei non la si fa” in commenti idioti, richieste inadeguate, esclamazioni pseudo-ironiche che punteggiano il discorso (“ah-ah”, “eh-eh”) e in una profusione di gestualità indicante il suo supremo intuito da detective: risolini, scrollate di spalle, sbuffi, sopracciglia alzate, severi cipigli.

Prendete quanto segue: è il 4 maggio 2016 e mi trovo all’Anagrafe con il mio compagno per comunicare il cambio di residenza.

La funzionaria allo sportello: Acqua gas luce?

Noi: L’acqua c’è, per il resto stiamo facendo i contratti (è noto che ci vuole tempo, vero? L’Enel per esempio i soldi li ha presi subito, ma per l’attivazione ci ha messo un po’).

La funzionaria, visibilmente seccata: EH NO! Così non va! Senza luce ecc. come fate a stare in quella casa?

Ho dovuto trattenermi dal rispondere con una facezia del tipo: Siamo Amish, per noi l’elettricità è un’emanazione di Satana: sta per caso insultando la mia religione???

Tentiamo di rispiegare che stiamo facendo i contratti ma all’impiegata il concetto non dev’essere familiare, perciò si limita a scuotere la testa e a tenere il broncio.

Poi si passa alla visita dei vigili:

La funzionaria: Lei a che ora va a lavorare? La signora sta a casa? Eccetera. (Poiché la “signora” era allo sportello, sarebbe stato sensato farle le domande direttamente e non considerarla “al traino” parlando di lei come se non fosse presente.)

Informiamo la suddetta che ci trasferiremo definitivamente il 15 maggio, ma anche qui il concetto non penetra e veniamo gratificati da espressioni di disgustata irritazione. Quindi, nel mero tentativo di venire incontro ai vigili affinché non escano a vuoto, diciamo: C’è un numero di cellulare…

La funzionaria, con aria saputa: EH-EH NO!!! Non funziona così!

Cioè, ci tratta come se noi fossimo dei “furbi” che vogliono farla franca da chissà cosa dando un preavviso. Ma santo cielo, se la visita dev’essere a completa sorpresa perché diamine ci si chiede di dettagliare orari e abitudini? E di che tipo di gioco si tratta, di grazia, “rimpiattino con i vigili”? Credevo avessimo a che fare con un mero cambio di residenza. È a questo punto che ho rinunciato a spiegare qualsiasi cosa e ho semplicemente reiterato il fatto che ci avrebbero trovati al nuovo indirizzo in pianta stabile dal 15 maggio e che se la polizia comunale voleva buttar via del tempo facendoci visita prima era ovviamente libera di farlo.

Oppure: settimana scorsa, uffici dell’Acquedotto, tentativo di chiudere il contratto relativo alla vecchia casa. Davanti all’impiegata ci sono documenti (nuovo contratto d’affitto, bolletta vecchia, documento d’identità mio) ma al collega che sta alle sue spalle – una versione giovanile di Adinolfi, intelligenza compresa – non basta. È ovvio, per lui, che essendo povera e vecchia eccetera sono anche una delinquente che sta barando sulla propria identità: difficile dire cosa ci guadagno, ma questo è irrilevante per Sherlock Waterholmes, per cui mi chiede di togliere gli occhiali scuri. (Sono ipersensibile alla luce, ecco perché li porto.) Eseguendo, anche se non sarei stata tenuta a farlo, sono abbastanza seccata da rispondergli così: “Troppe puntate di CSI fanno male”. Sherlock si agita sullo scranno: “Come, come?” Poi i nostri sguardi, il suo da dietro gli occhiali da vista, il mio non velato da lenti e assolutamente, profondamente, visceralmente sincero si incontrano e il detective capisce che dire un’altra sola sillaba sarebbe inopportuno.

O ancora, sempre la scorsa settimana: tentativo di comunicare alle Poste il cambio di indirizzo. Eeeeh, i tempi sono cambiati!, ci fanno sapere i funzionari postali. A dire il vero ce n’eravamo accorti, è l’Era di Renzi il Rottamatore che fa a pezzi le agenzie di stato e le vende ai privati, un’epoca in cui la farraginosa lentezza della burocrazia è solo un ricordo (o no?). Per cui, se vogliamo che le Poste reindirizzino ciò che ci viene inviato al nostro attuale domicilio dobbiamo stipulare un agile e rapido contratto pagando la somma di euro 18… previa compilazione, ovviamente, di una dozzina di moduli da portare a casa, velocissimi, guizzanti come anguille e petalosi all’inverosimile. Li abbiamo buttati nella carta da riciclo, ovviamente.

 

Maria G. Di Rienzo

(da Lunanuvola's Blog, 25 maggio 2016)


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