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Roberta De Monticelli. Spartiacque 
Da Tellus 15, “Inventare le Alpi”, 1995
Tellus 15, anno VI, 1995
Tellus 15, anno VI, 1995 
22 Aprile 2008
 

Avrei voluto dedicare a Spartiacque1 la riflessione – e l’indugio, e il tranquillo pensare – che come sempre, Abramo Levi merita e richiede. Ma lungo i fiumi o piuttosto gli avari e impetuosi torrenti delle nostre montagne, camminare in silenzio è meno difficile che dissertare… Altra volta ci eravamo incontrati: anche allora, credo, lui saliva, e io – a quanto pare – scendevo, anzi precipitavo. Mi perdonerà, Abramo, se cito un passo della sua Postfazione a La preghiera di Ariele:2

«Qui il movimento iniziale non è di ascesa, di elevazione, bensì di discesa, e di discesa precipitosa come di acqua in una condotta forzata, che non si scontra frontalmente con l’ostacolo, ma lo sfiora e lo smuove passando oltre».

Passando oltre. Simile in questo, forse, a quell’intuizione dell’essere, che infine non riesce a dirsi e tanto meno a chiarirsi… Volevo scrivere su Spartiacque, e invece non m’è riuscito che di “rispondere” a certe immagini di Abramo; forse nella speranza, chissà, di incontrarlo ancora, per quelle valli, e nel tentativo di risalire, questa volta il corso di quel torrente; di risalire a un “prima”… E la parola che goffamente tentava questa risalita alla sua fonte non ha saputo scorrere, farsi discorso e racconto, né farsi filosofia. Abramo mi perdonerà – non mi resta che dedicargliela. [R.D.M.]

 

 

 

SPARTIACQUE
 
Ad Abramo Levi
 
Sol oriens tibi laetitiam
legge la prima luce
sopra le tre grandi finestre ad arco.
Tiibi laetitiam. Ricordi?
Sette paia di scarpe ho consumato
Di monte in valle, per te ritrovare.
Sette fiasche di lacrime ho versato…”
 
Era la stanza dei bambini il varco.
Da quella parte, amore
quante volte quel viaggio è cominciato.
 
C’era in fondo allo scrigno
di latta, in quella stanza
il nome di un paese – Cielodoro
forse, o Albarosa, un paese di mare.
Lo cercavo per te, nato d’aprile
il chiaro nome di quell’altra riva
dove eravamo, lieti – ora che cede
al tempo, che si strugge il tuo mistero.
 
Aprile ha sette anni, ma quel nome
non lo ricordo. Il mare
Friedrich, mia viva pace, oro del giorno
non lo rivede questo puro, inquieto
nascere che si perde
acqua sorgiva.
 
Alta nell’ombra viva
a Settentrione, sullo spartiacque
del cuore, dove brucia
l’ansia di un’altra lingua
int a l’ultima glutch
nasce divisa.
 
Sol oriens – come è immobile l’augurio
sulla facciata oscura.
da quella parte il popolo fiorito
sussurra in cupe fiamme ai suoi cancelli
Resurrecturi.
 
Dall’altra parte dolcemente curva
la valle del Nord. Si sale
nella luce di un nome fulvo e ripido
Valfurva.
 
Bianco signore che liberi il tempo
era mattino, e scaglie
di sole risalivano il torrente
al nostro fianco, pullulante pesca
che suscitavi con mano leggera
luce sull’orlo del pianto.
 
La stessa che riluce obliqua e ferma
nell’alto del mattino sull’ardesia
e fa dei tetti coperti di luce.
 
Caro paese dei muri di specchi
che oscuramente duri
familiare e segreto
e ogni svolta più alto
e più ferito
quante volte si torna
per confini di frane
al vago del tuo mito.
 
Sol oriens - ma l’annuncio fu una piuma
alta nel largo, e il cuore
- il Königsplatz, signore acuminato -
quasi svaniva, lieve
in un soffio di luna
e salire era lieve.
 
E superbia e dolcezza
orgoglio ed abbandono
erano uno, e lo stesso candore
picco e nevaio, insieme.
 
Et exultavit in utero meo
girando su se stesso
un carillon di fuoco
e l’augurio si fece canto pieno
- danza creatura mia
la vita è intatta.
 
Uscisti un giorno a caccia, e a sera
cent’anni eran passati.
Così avviene. S’impenna
la mente, e vola, chissà dove,
principe Biancospino.
Ma non la sapevamo
la fiaba dello scrigno
di latta. Non sapevamo niente.
 
Ora quando ritorno
l’altra parte mi chiama, ad Occidente
dietro l’Albergo Vecchio
dove è l’imbocco delle prime estati.
Salgono a balzi e prati
fino alle bocche dell’acqua confusa
di polle solforose e di ghiacciaio.
 
Ora sempre nascente, acqua sorella
confusa vita, promessa ventura
parola che resisti, impura – dove
per condotta forzata
grazia stravolta in furia
chiami profonda ancora
Tibi laetitiam.
 
A questa nata
e sviata a servire
dove - sorella, vita, acqua, parola
sorgi, tenue, segreta.
 
Da Biancospino vedi la centrale
selva d’alta tensione.
Dov’era il fiume
un rivolo lucente, acqua di neve
che non ti toglie la sete.
Dove rinasce non lo vedi ancora:
guardavo in alto e mi tornò alla mente
l’onesto Nicodemo.
E vidi fra due abeti
l’invisibile, altissimo
filo di ragno luccicare al sole.
 
Di lì sale la strada militare
ai laghi di Cancano.
 
Come nell’alto il largo
scintilla la sua vita
arginata alla fonte.
Dal basso appare prima della diga
un riso che dilaga
e non discende
- una quiete di smalto.
 
Non ho corso né storia
oltre l’invaso
ma l’alto si fa largo
liquido prato
in lei si sciacqua
contenta fra gli spalti.
 
No, non pare soffrire.
Pare una vasta domenica d’acqua.
 
Così respira l’ampio
la betulla che trema in sé contenta
quieta e lieve, del nulla.
 
 
(Roberta De Monticelli insegna Filosofia all'Unicersità di Ginevra ed è autrice di alcuni importanti volumi di studi filosofici. Nel 1992 ha pubblicato, presso Garzanti, la raccolta di poesie La preghiera di Ariele. Ha in corso di pubblicazione, presso Feltrinelli, il volume L'ascesi filosofica).
 
 
1 Abramo Levi, Spartiacque, L'Officina del Libro, Sondrio 1994.
2 Roberta De Monticelli, La preghiera di Ariele, Garzanti, Milano 1992. Prefazione di Abramo Levi.
 
 
Da Tellus, n. 15, anno VI, 1995

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