“Qui, dove i bambini giocano per allenarsi al dolore
che li attende”
“Nel giardino conteso l’ineluttabilità della disfatta giustifica il nostro dolore”
Ed in questa ineluttabilità la parola poetica deve assumersi il compito di dire la verità.
All’uomo “desituato” spaesato ed errante s’accompagna, nel percorso accidentato, la parola che saprà farsi riconoscere, decifrare l’urlo e il suono del vento, coagulare l’ammasso informe del soffrire in una musicalità che dalla nascita alla morte, nella circolarità di un disperato rincorrere l’infanzia, si farà coscienza e accettazione. Solo allora potrà l’esilio farsi prossimo all’essere e i deserti e gli oceani parlare tutti una sola lingua, riconoscersi in un senso pur caduco, pur illusorio nella dignità di una continua resistenza.
È facile cadere nella prepotenza del sistema, esprimersi in luoghi comuni e tentare di non vedere; quanto circonda l’essere è costantemente minacciato dalla pre-potenza del sistema, dalla massificazione del linguaggio che spesso depista la consapevolezza verso una via apparentemente più semplice. Ma non è un viaggio – ci dice Flavio Ermini – è una percorrenza continua che vive luce ed ombra, il loro formarsi imperfetto tra ascesi e dissipazione.
Nell’ultimo capitolo de Il giardino conteso il verso segue l’andamento ritmico del respiro, vicino “all’incessante moto del sangue/ …che bagna costantemente il cuore” il gruppo nominale, quasi sempre musicato a fine verso, sembra accompagnare per mano, conscio della propria responsabilità ed entrare in empatia con i lettori, suoi compagni di strada sia essa impervia o sabbia di deserto o
naufragio di mare.
La scrittura diventa salvifica
Le marine rimandano ai dipinti di Turner
La donna dei fusi protegge dalla morte con un sonno che non invecchia e s’invera all’alba.
E le gocce di sangue sulle pietre del giardino vicine alle ali spezzate non sempre saranno memoria di caduta dai cieli ma forse il volto di una nuova umanità.
Patrizia Garofalo