Flavio Ermini
Il giardino conteso
L’essere e l’ingannevole apparire
Moretti&Vitali, 2016, pp. 244, € 18,00
“Il posto giusto non è là dove gli uomini costruiscono porti per salvaguardare le proprie illusioni e con esse la propria vita. Per colui che seriamente vuole la vita, il posto giusto è il mare infuriato.”
Flavio Ermini
Il vero inizio nasce nell’abisso dei primordi e risiede nell’indistinto, l’origine di tutto. Le sculture cicladiche di Amargos con le braccia conserte sbarrano il passo a chi intenda sostare in terra non curandosi di risalire la caduta verso l’archè, il principio, l’aperion in un sempre ostacolato viaggio, sentiero o, meglio, dolorosa percorrenza. Nasciamo da un’alba che non conoscerà giorno e procederemo per oscuramento di luce.
L’auroralità, l’uscita dal liquido amniotico dell’antistoria, dall’enigma che oscura e l’abbandono della casa natale spingono l’uomo a una continua ricerca tesa a superare le apparenze per avvicinarsi quanto possibile ad abitare poeticamente il mondo. La fine delle illusioni e la consapevolezza della morte tracciano la via di un viaggio senza meta, senza terra né cielo, smarrito cammino verso l’anti-storia, spaesato-nomadismo alla ricerca di compiere ogni volta la propria infanzia. In quel luogo-non-luogo privo persino della funzionalità del tempo, si potranno scorgere ombre e rinvenire l’essenza dell’essere. Negata è all’uomo l’azzurrità: non resta che aprirci un varco nell’ingens sylva, nel giardino che racchiude i morti e i viventi, essere ed apparire, fiori e pietre. Non resta che inoltrarci nelle dense tenebre di luce di cui noi stessi, quali incessantemente nascenti, siamo formati.
Si misurano natura e uomo, immutabilità e caducità, illusione mancate all’… apparir del vero… eppure solo nella consapevolezza dello smarrimento, ci dice Flavio Ermini, si accetta la condizione umana e si percorrono i sentieri in prossimità di una atemporalità incorruttibile. L’essere è il tutto indifferenziato. Non c’è distinzione tra i contrari, non c’è successione temporale. È l’apeiron nominato da Anassimandro. Accade che dall’apeiron si formino singole cose, singoli esseri. I quali devono tuttavia fare i conti – esistendo – con la temporalità, ovvero con la morte. Queste cose, questi esseri vivono in un mondo profondamente dolente e tornano all’apeiron. Va da sé che quanto appare è pura illusione. Lo dobbiamo riconoscere. È pura apparenza. Il giardino è quel non-luogo che sta tra l’essere e l’apparenza. La contesa avviene tra questi elementi: ma costretti a un mondo di apparenze siamo pur destinati all’essere, all’Uno indefinito e a- temporale. Possiamo anche “immaginare” che il giardino sia l’eden, il principio, lì dove le cose per la prima volta si manifestano, ma è una manifestazione illusoria, in realtà è la terra dell’esilio a cui è destinato l’uomo… e nel dolore potremo comprendere che solo l’acconsentire a esso potrà condurci all’essenza. La precarietà del vivere deve avere risposta e la verità si trova nell’incertezza (Socrate) diventerà compagna dell’accidentato percorso verso l’abisso. L’esilio e, di conseguenza, l’erranza nella notte in contatto spaurito con l’indefinito non possono non rimandare al canto del pastore errante dell’Asia, e proprio di indefinito parlò nello Zibaldone lo stesso Leopardi, per il quale il mondo vive di apparenze accanto a una natura che abbuia senza nascita di luce…
… e quando miro in ciel arder le stelle
dico tra me pensando
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita e quel profondo
infinito seren? Che vuol dir questa
solitudine immensa ed io che sono?
Abitare poeticamente la terra, significa provare a realizzare qui e ora, l’indifferenziato dell’essere: provare a vivere in simbiosi con la natura con la physis. Vivere nel regno che sta tra la vita e la morte. Forse sarà l’alba. Certo è che bisogna evitare percorsi facili, “strade ben tenute”, e percorrere l’inconsueto, il pericolo non si nasconde in esso, ma piuttosto in ciò con cui abbiamo confidenza e che sembra proteggerci.
Ed è la parola a diventare “la casa ospitale”, il luogo dell’accoglienza che annienta ogni volta quanto s’allontana dall’apeiron; la parola aprirà il varco al dire ulteriore, lontano dalle certezze e pronto ad accettare, in direzione di caduta e d’oscurità, l’inesprimibile .
A lenire l’erranza, la responsabilità della parola, di cui spesso ha parlato Ermini e alla quale ha donato ascolto, silenzio, poesia, prossimità all’essenza per depurarla dall’hybris umana, che autorizza l’uomo a eleggersi sovrano della natura. È fiume la parola, acqua sorgiva, anti-storia, preesistenza, linguaggio di allora quando lasciammo la casa del padre per non farne ritorno. E sarà l’esperienza poetica a contendere il giardino all’ingannevole apparire.
Ognuno di noi, fratelli, è chiamato a dire a sé e ad un altro … a dirsi a darsi del tu, e dire alla fine la propria parola che non è più parola ma soffio di vento.
Liberare l’essere nella parola poetica per avere a cuore la verità la lingua di chi scrive è questa lingua, straniera nel suo annuncio. Essa nasce dopo l’accettazione dell’erranza, dell’esodo, dei deserti, del sole che non s’annuncia; contraria a linguaggi precostituiti, scaturisce su un foglio, conduce con sé il peso di infiniti dolori, ferite e abbandoni e la nostalgia di una consapevole e costante perdita dei sogni e delle illusioni.
Proprio per questo è quanto ci sia di più vicino all’essere. Proprio per questo è vera e cristallina, rivelatrice dell’essere e forma sublime ad aprire un varco nel giardino conteso.
Queste le parole di Flavio Ermini. La poesia è un corpo mutevole; è un albero che ogni volta è una cosa nuova, interpretarne la metamorfosi vuol dire far emergere ciò che dell’opera non è stato ancora visto … e la sua compiutezza è sempre apparente … Dire per tornare in possesso della propria ombra.
«Nessuno mai è riuscito a dire / cos’è / nella sua essenza / una rosa» scrive Giorgio Caproni; può però, l’uomo, sembra suggerirci Ermini vivere nella prossimità della fioritura e coglierne lo sbocciare e lo sfiorire.
Patrizia Garofalo