Nel 1573 Paolo Caliari, detto il Veronese, dipinge una grande allegoria della battaglia di Lepanto, combattuta due anni prima. Tra raggi di luce, angeli e santi, schiere di navi si affrontano sul mare, in un confuso incastro di vascelli, alberature, remi e bagliore di armi. Tra i tanti combatte in quella battaglia anche il ventiquattrenne Miguel de Cervantes Saavedra.
Nato nel 1547 ad Alcalà de Henares, non si sa esattamente dove trascorse l’infanzia e l’adolescenza. Lo troviamo studente a Madrid dove, ritenuto colpevole di aver ferito in uno scontro un certo Antonio de Segura, è condannato al taglio della mano destra. Per evitare la condanna, Cervantes fugge in Italia al seguito del cardinal Acquaviva e, arruolatosi nelle schiere imperiali, combatte a Lepanto dove, sfuggito al taglio della mano destra a cui era stato condannato, perde in battaglia quella sinistra. «Ma egli» scrive di sé più tardi «trova bella questa ferita, perché l’ha ricevuto combattendo sotto le vittoriose bandiere di Carlo V di felice memoria». Essendo soldato, vorrebbe conquistare un po’ di gloria con le armi. Partecipa, tra altre imprese, alla presa di Biserta e di Tunisi nel 1573 e, nei momenti di pausa, scrive novelle e drammi. Intanto don Giovanni d’Austria, vincitore di Lepanto e vicerè di Napoli, lo raccomanda per una promozione a capitano, che però non riuscì mai ad avere. Così si imbarca per tornare in Spagna. Naviga con una piccola flotta ma, non si sa per quali ragioni, la sua nave si distacca dalle altre; individuata dai corsari turchi, viene presa d’assalto alla foce del Rodano. Cervantes, preso prigionieri con pochi altri superstiti, viene venduto come schiavo. Rimane in terra africana per cinque anni, tentando invano di fuggire; poi viene riscattato e torna in Spagna, dove presta ancora servizio nell’esercito per due anni, senza peraltro conseguire quella nomina a capitano a cui tiene moltissimo. Nel 1584 si sposa e va a vivere a Siviglia, lavorando in qualità di commissario per le forniture dell’Invincibile Armada, la flotta navale di Filippo II, ma pochi anni dopo viene arrestato per una questione di ammanchi dovuti alla disonestà di un banchiere di cui ingenuamente si è fidato. Nella solitudine della prigione, ancora – come in altre situazioni di prigionia o di solitudine – cerca di evadere con il pensiero e immagina una fuga nelle immense pianure di Spagna, cavalcando come un cavaliere antico, per difendere i deboli combattendo. Ma immagina anche di deridere spietatamente il servile comportamento di molti, quello stesso che egli, nella vita, sta conducendo.
Uscito dal carcere, Cervantes di trasferisce a Valladolid, dove comincia a scrivere la prima parte dell’opera, che esce nel 1605 (ma più recenti ricerche daterebbero la prima edizione nel 1604). La intitola L’ingegnoso gentiluomo Don Chisciotte della Mancia. I protagonisti sono: un cinquantenne male in arnese, che cambia il proprio nome di Alonso Quijano in quello pomposo di don Chisciotte della Mancia; il suo cavallo, un povero ronzino, cui pone il nome di Ronzinante, pomposo e risonante, come era conveniente al nuovo ordine ed all’uffizio nuovo che ormai assumeva; la dama, una contadinotta delle vicinanze che non si curava affatto di lui, a cui dà il nome di Dulcinea del Toboso; infine, un contadino del vicinato; un uomo dabbene, ma con molto poco sale in zucca, che si chiamava Sancio Panza, convinto a seguire il cavaliere come suo scudiero perché poteva capitarli qualche avventura di guadagnarsi in quattro e quattr’otto un’isola di cui l’avrebbe nominato governatore.
Così don Chisciotte su un cavallo e Sancio su un asino uscirono dal paese senza essere visti da nessuno e camminarono tanto che all’alba si tennero sicuri che, se anche li avessero cercati, non li avrebbero trovati.
Comincia così la serie di vicende dei due personaggi, in una successione di pseudoavventure dove l’immaginazione impazzita del cavaliere affronta fantasiose trame di assalti, lotte, misteri e straordinari eventi. Una storia di saggia pazzia, o di pazza saggezza, in cui Cervantes sembra voler ridicolizzare, attraverso la simulazione narrativa, i comportamenti irresponsabili e assurdi, le troppo serie situazioni reali, gli eventi che inquietano per poca cosa o per nulla. Cerca insomma, nell’ilare pazzia del suo personaggio, di trasformare gli eventi elogiando la diversità, l’evasione, la fuga da una realtà spesso pesantemente insopportabile. La pazzia dunque come rifugio alla tristezza e alla miseria del quotidiano, che per questo va elogiata, come scrivevano in quei tempi Erasmo da Rotterdam e Sebastiano Brant; o esaltata, come accade nell’Orlando Furioso dell’Ariosto. O anche la follia come mezzo per fingere se stessi e al tempo stesso rivelarsi, come Amleto, Ofelia, Re Lear, lady Machbet, e dalla quale viene travolto il Tasso. Cervantes no: tra odiare gli uomini e divertirsi alle loro spalle, sceglie quest’ultima strada, e crea questo personaggio straordinario, un Burlador de la Mancha che si avventa sui fantasmi delle cose. Fantasmi che nel loro simbolismo sono la trascrizione deformata ma vera della più cruda attualità.
E, in realtà, i castelli dei principi sono locande mascherate dove occorre pagare molto per avere una misera ospitalità, i mulini sono briganti che vivono di vento e di furto, le vergini che si incontrano non sono altro che prostitute travestite, le serve sono meglio delle signore, i soldati sono pecore condotte al macello, e le schiere dei condannati sono sicuramente più innocenti dei loro sbirri. È ciò che don Chisciotte, o meglio Cervantes, pensa degli uomini. E la sua storia personale continua, nonostante i sogni, ad essere mediocre e triste. È stata appena pubblicata la prima parte della sua stralunata storia, che viene di nuovo arrestato – innocente – per un assassinio accaduto di notte di fronte alla sua casa, e del quale vengono accusati lui e la famiglia come esecutori. Fa alcuni mesi di prigione, dopodiché, scagionato, torna libero. Ma si può ben pensare con quale animo e quale rancore verso la società.
Dopo il carcere, torna a Madrid, al seguito della corte di Filippo II. Qui, nel 1615, appare la seconda parte del romanzo, mentre anelava invano ritornare in Italia, e dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Era il sogno di un poeta, come in realtà egli fu, perché il Don Chisciotte è anche un’opera di poesia. Lui, Cervantes, viveva di sogni. La vida es sueño, scriverà più tardi Calderón de la Barca: Qué es la vida? un frenesí; / Qué es la vida? una ilusión / una sombra, una ficción…
Così, in quegli anni preziosi per la cultura spagnola, si consumano le contraddizioni di una società splendida e miserabile, dove l’opulenza delle corti e dell’arte si mescolava con il putrideiro della morte rivestita d’oro, degli stracci mescolati a velluti e corone, agli incensi e alle pustole dei bambini che si spulciano, come si può vedere in molte pitture spagnole dell’epoca: Murillo, ad esempio, che dipinge bambini vestiti di stracci e gallegas, prostitute alla finestra, che cercano di attirare i clienti, o una vecchia che spidocchia un bambino, o dei poveri contadinelli affamati, ma dipinge pure Madonne e Santi, in scene di dolcezza mistica e splendori di porpore e di ori; oppure El Greco, che esalta mortificazioni austere e mistici asceti macerati dai tormenti della passione religiosa. La letteratura trova spazio nella celebrazione del Rinascimento che si conclude e del Siglo de oro che inizia, mentre la pittura, per mano di artisti come Velasquez sottolinea ulteriormente le scene di genere dipinte da Juan del Castillo, da Francisco Herrera, da Ribera, da Zurbarán e da altri ancora, insistendo su caratteri e sentimenti, ma anche sulla descrizione della modesta vita quotidiana ripresa anche nei dettagli: canestri di vimini, boccali, tovaglie che conservano ancora la traccia delle piegature con cui erano riposte nella cassapanca, pentole entro cui cuoce la zuppa, uova che friggono nel padellino di coccio. Eppure questo splendore intriso anche di miseria, di ascetismi e di trionfi sta concludendo il suo aureo itinerario. Carlo V aveva abdicato quando Cervantes aveva otto anni; la potenza spagnola comincia a declinare già sotto Filippo II, poi sempre più sotto Filippo III. Il lento inizio di questo tramonto sembra avvertito anche da Cervantes, che vive una vita da fallito e descrive la storia di un personaggio pure fallito, che evade nella fantasia: un idealismo utopistico per fuggire la realtà o anche, volendo, un realismo adombrato da figure di spoglia e dimessa umanità.
Dopo aver scritto la seconda parte del suo romanzo, Cervantes vive ancora un paio d’anni. Di lui non si hanno più notizie, se non che sta scrivendo Le pene di Persiles e Sigismonda, sua ultima opera. E in questi giorni di tramonto, lo si potrebbe immaginare come lo rappresentò Honoré Daumier nel 1866: uno stanco e disilluso vecchio, seduto su una sedia in una saletta buia, le gambe scheletriche, il volto macilento, gli occhi profondamente cerchiati di stanchezza. Pochi libri in terra, a rappresentare la dispersione di quanto la mente ha pensato e che andrà poi irrimediabilmente perduto con la morte.
Cervantes muore a Madrid il 23 aprile del 1616, ma non dimenticato. Trasfigurato nel cavaliere dell’ideale, cammina ancora nelle strade di Spagna e del mondo, aprendoci – in ogni tempo, nella storia e nella vita – i meravigliosi itinerari della fantasia e della speranza.
Gian Luigi Zucchini